Circolo della Montagnola





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mercoledì 30 aprile 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

Il liberismo e la speranza
(Francesco Giavazzi - Corriere della Sera)



Da una quindicina d’anni su questo giornale mi batto per il mercato, per le liberalizzazioni, per uno Stato meno invasivo. Sostengo i benefici della concorrenza e dell’apertura agli scambi, non per scelta ideologica ma perché penso che mercati aperti e concorrenza siano lo strumento per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e il futuro dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, non dal loro impegno o dalle loro capacità. Nel frattempo nel mondo sono successe alcune cose. La globalizzazione dei mercati ha consentito a mezzo miliardo di persone di uscire dalla povertà: nel 1990 le famiglie in condizioni di povertà estrema erano, nel mondo, una su tre; oggi poco meno di una su cinque.

Ma con la globalizzazione si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto nei Paesi ricchi e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi, ma piuttosto le nuove tecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (Negli Stati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni nel 1972 era, ai prezzi di oggi, 15 dollari; 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentato da 24 a 30 dollari l’ora). Come osservavano già tre anni fa Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi («La fine della classe media») in occidente è sparita la classe media tradizionale, quella che per mezzo secolo è stata il collante del sistema politico: al suo posto è nata una società nella quale chi ha scarsa istruzione è angosciato e cerca qualcuno che lo protegga. E non sempre il mercato dà buona prova di sé. Negli Stati Uniti è inciampato in un paio di infortuni.

Nel 2002 le frodi degli amministratori di Enron, Tyco e WorldCom. Oggi la crisi innescata dai mutui «subprime»: se non fossero tempestivamente intervenute le banche centrali, cioè lo Stato, i mercati rischiavano di precipitare. Talora un mercato neppure esiste, come nel caso dell’energia: prezzi e forniture di gas — l’80% dell’energia utilizzata in Italia—sono determinati da un cartello dominato dalla Russia. Pensare di aprire quel mercato alla concorrenza è un’illusione un po’ infantile, almeno fino a quando non avremo costruito una decina di rigassificatori e ci vorranno, se tutto va bene, un paio di decenni. La Cina non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato. Per mantenere un tasso di cambio sottovalutato accumula una quantità straordinaria di euro e di dollari. La crescita cinese continua a dipendere dall’industria e dalle esportazioni. A parole il partito comunista si dice preoccupato della crescente diseguaglianza, ma poi non fa quasi nulla per correggere il tiro e spingere la domanda interna, soprattutto i servizi, in primis la sanità. Sempre più i mercati aperti spaventano gli elettori. Nella campagna elettorale americana sia Obama che Hillary Clinton parlano con accenti critici della globalizzazione e si guardano bene dall’attaccare i sussidi pubblici che rendono ricchi gli agricoltori Usa a spese del resto del mondo, ad esempio dei coltivatori di cotone egiziani.

In Francia Sarkozy a parole (e non sempre) predica il mercato, ma provate ad aprire una linea aerea e a chiedere uno slot per un volo Linate-Charles De Gaulle: lo otterrete, ma alle 6 del mattino. La maggioranza degli italiani ha votato per un candidato, Silvio Berlusconi, che si è impegnato a salvare — con denaro pubblico — un’azienda che perde un milione di euro al giorno: non ho visto nessuno sfilare perché le nostre tasse vengono usate per tenere in piedi un’azienda da anni decotta. (Ho invece visto i tassisti romani festeggiare il nuovo sindaco della città che due anni fa aveva manifestato solidarietà per la violenta protesta dei tassisti contro le liberalizzazioni di Bersani). Insomma, il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come me, vorrebbe meno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi promette «protezione» dal vento della concorrenza. Che cosa non abbiamo capito, dove abbiamo sbagliato? Alcuni ritengono che il problema nasca dall’errato accostamento di «concorrenza » e «mercato».

Concorrenza significa regole: in assenza di regole non è detto che il mercato produca una società migliore di quella in cui vivremmo se venissimo affidati ad uno Stato benevolente. Affinché il mercato, la globalizzazione diventino popolari è necessario «governarli». E’ certamente vero, ma anche un po’ illuminista. Vedo anti-globalizzatori che occupano le piazze, ma non vedo cittadini che manifestano perché il Doha Round non fa un passo. La decisione dei capi di Stato dell’Ue di cancellare la concorrenza dai principi irrinunciabili stabiliti dal nuovo Trattato europeo è passata inosservata. Insomma, non mi pare che i cittadini reclamino più regole: la protezione che chiedono —e che alcuni politici promettono—è quella dei dazi e dei vincoli all’immigrazione, non l’antitrust. A me pare che i liberisti debbano porsi un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l’alternativa al mercato, al merito, alla concorrenza è una società in cui i privilegi si tramandano di generazione in generazione, i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chi nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle sue capacità. Convincerli che il modo per difendere il proprio tenore di vita è chiedere buone scuole, non dazi.

Il «miracolo economico» italiano degli anni ’50 e ’60 fu il frutto del mercato unico europeo (e della lungimiranza di alcuni leader della Democrazia Cristiana che alla fine della guerra capirono l’importanza di entrare subito nella Cee). La caduta delle barriere doganali e l’ampliamento della domanda consentirono alle nostre imprese di allargare le fabbriche e raggiungere una dimensione che ne determinò il successo. La crescita tumultuosa di quegli anni creò opportunità per tutti. Non ho dati, ma penso che se qualcuno allora avesse chiesto agli italiani che cosa pensavano dell’apertura degli scambi, la maggior parte avrebbe risposto favorevolmente. L’Europa di allora è il Brasile, l’India, la Cina dei giorni nostri, ma i più oggi le considerano minacce, non opportunità. Mi pare che l’Italia si trovi in un «cul de sac». Da un decennio abbiamo smesso di crescere: dieci anni fa il nostro reddito pro-capite era simile a Francia e Germania, 27% più elevato che in Spagna, 3% più che in Gran Bretagna.

In questi anni abbiamo perso dieci punti rispetto a Francia e Germania, siamo stati raggiunti dalla Spagna e di nuovo superati dalla Gran Bretagna. Quando un Paese non cresce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha: mentre mercato, merito, concorrenza—i fattori la cui assenza è all’origine della mancata crescita—spaventano. I cittadini preoccupati chiedono protezione, qualcuno la promette e il Paese si avvita. (Il paragone, lo so, indispettisce, ma la storia del declino dell’Argentina —un Paese che ai primi del ’900 era ricco quanto la Francia—inizia, con Peron, proprio così). Il tentativo di convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloccare l’Italia—devo ammetterlo — è fallito. Con Prodi la sinistra ha perso un’occasione storica: anziché sbloccare la società ha essa pure offerto protezione. Ma chi ha protetto? Non chi temeva la globalizzazione — che infatti si è fatto proteggere dalla Lega—ma il sindacato, anzi i suoi leader. Temo ci vorrà qualche legislatura per riparare questo errore.

I nuovi interlocutori dei «liberisti» (come sostiene da qualche tempo Franco Debenedetti) oggi sono i «protezionisti»: sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpretare meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini. E tuttavia la risposta alla «mobilità planetaria» non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congelata non solo è ingiusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori e deperisce. E’ un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l’Italia sarebbe un suicidio.

30 aprile 2008


La sinistra succube della destra
(FABRIZIO RONDOLINO - LA STAMPA)


C’è la sinistra in Italia? Dal punto di vista lessicale, per la prima volta dal 1946 non è presente in Parlamento. Non soltanto non ci sono più i comunisti e i socialisti: non c’è più neppure la parola «sinistra», che i Ds ancora portavano sulle loro insegne. I risultati delle ultime elezioni non sono meno drastici: grosso modo, il Pd è fatto per un terzo di ex Margherita e per due terzi di ex Ds; sommando alla quota diessina i voti raccolti da tutte le sinistre antagoniste (compresi Ferrando e Turigliatto) e dal Ps, si arriva al 27,3% dei voti validi. Tre punti in meno di quanto raccolse il Fronte popolare di Nenni e Togliatti nel '48. Sette punti in meno della «gioiosa macchina da guerra» assemblata da Occhetto nel ‘94. Più di cinque punti in meno rispetto ad appena due anni fa.

Si è più volte polemizzato, in campagna elettorale, sulle somiglianze fra i programmi del Pd e del Pdl, con reciproche accuse di «aver copiato» e con l’inevitabile evocazione del nuovo mostro, il «Veltrusconi». In realtà, che i programmi dei due partiti che competono per il governo di un qualsiasi Paese occidentale siano relativamente simili è un’assoluta ovvietà. Non è infatti sui programmi che si decide il successo di una forza politica, ma sulla sua identità. In generale, l’idea che far politica e vincere le elezioni significhi presentare una lista della spesa più o meno credibile, più o meno compatibile, e più o meno gradita agli esperti del Sole 24Ore, è un'idea risibile. Sebbene la parola sia carica di equivoci, la politica è fatta di valori, non di programmi. Ciò naturalmente non significa che le «cose», cioè i programmi elettorali e le leggi che (a volte) ne conseguono, non abbiano un peso e un significato: ma quel significato è inscritto e dipende da un sistema di valori che lo precede e lo contestualizza.

L’esempio più clamoroso è lo scontro sulla sicurezza. È evidente a tutti che chi commette un reato va punito, e che i crimini vanno prevenuti: non è dunque di questo che si sta discutendo. Negli ultimi sette anni, Berlusconi ha governato per cinque, e se c’è oggi un’emergenza, una qualche responsabilità deve avercela anche il centrodestra: ma all’elettore di Berlusconi quest’ipotesi non viene neppure in mente. Viceversa, né i provvedimenti già presi dal centrosinistra (la criminalità nelle aree metropolitane è oggettivamente diminuita), né quelli annunciati in campagna elettorale, riescono a soddisfare un’opinione pubblica che, si legge sui giornali, «non ne può più». La ragione è semplice. Nell’identità valoriale della destra c’è un’idea di ordine sociale tendenzialmente esclusivo anziché inclusivo, c’è il valore della comunità e della nazione, c’è l'idea un poco paternalistica per cui uno scappellotto ogni tanto fa bene, e così via. I fallimenti pratici dei governi di centrodestra sono oscurati dalla saldezza dell’orizzonte simbolico di riferimento.

Per la sinistra, accade esattamente il contrario. I valori storici della sinistra hanno a che fare con la solidarietà e con la difesa dei più deboli. Una politica di sinistra moderna dovrebbe chiedersi come declinare questi valori nel mondo d’oggi; se però, come accade regolarmente, finge che siano andati fuori corso e suggerisce l’impressione di scimmiottare la destra, il risultato è un cortocircuito vistoso che lascia perplessi i simpatizzanti e certo non convince gli incerti.

In altre parole, la sinistra su molte questioni suona inautentica a chi non è di sinistra, e ambigua o irriconoscibile a chi lo è, perché nel dibattito pubblico insegue sempre più spesso (magari per moderarne la portata) le proposte della destra, cioè quelle proposte, giuste o sbagliate, che sorgono e fruttificano all’interno di un universo valoriale tradizionalmente di destra. In questo modo la sinistra subisce la scelta del campo di gioco e accetta di giocare una partita non sua. Oggi è la destra a detenere saldamente l’egemonia culturale del dibattito pubblico, di cui regolarmente scrive l’agenda. Si tratta di una novità che pochi, persino a destra, sanno riconoscere. Ma è questa la novità politica del nuovo secolo, e da qui discende tutto il resto.

Fare politica significa convincere i cittadini delle proprie buone ragioni, per poi agire di conseguenza una volta eletti; non significa rincorrere l’opinione pubblica in cambio di una poltrona. L’idea stessa di «opinione pubblica» è fuorviante, e andrebbe maneggiata con cura. La sinistra invece ne è diventata succuba, e scambia regolarmente il sismografo per il terremoto; come una mosca impazzita, sbatte contro il vetro dell'avversario senza accorgersi che tutt'intorno lo spazio è aperto. Il moderatismo e il radicalismo, le due malattie mortali della sinistra italiana, sono precisamente questo sbattere senza fine della mosca contro il vetro.

Il moderatismo del Pd ha paura di spaventare i «moderati», rincorre la Lega al Nord, nasconde i Radicali e archivia i Dico; il radicalismo dell'Arcobaleno si trincera dietro una serie estenuante di no. Entrambi sono figli del Pci di Berlinguer, che dapprima annacquò il profilo programmatico fino a renderlo indistinguibile da quello di Andreotti, nel tentativo di cancellare l’appartenenza, seppur su posizioni critiche, all’universo sovietico; e che poi, fallita la «solidarietà nazionale», si rifugiò nel fondamentalismo ecopacifista e finì col condividere fin nei dettagli la politica estera di Breznev. Da allora, la sinistra ha sempre oscillato e si è sempre divisa fra il tentativo di cancellare il colore di una pelle di cui si vergogna, e l’esibizione rancorosa della propria impotenza.

Eppure non è così difficile, nel mondo, essere di sinistra, «essere sinistra». Lasciamo da parte Blair, che è stato a lungo indicato come modello e che nel frattempo se ne è andato in pensione senza che una sola delle sue idee trovasse ospitalità nella prassi della sinistra italiana. Guardiamo a Zapatero. Il suo straordinario successo elettorale non si deve a una complessa alchimia di alleanze moderate o a un cambio di nome, ma, più semplicemente, all’aver rifondato una sinistra per la Spagna, e all’aver convinto gli spagnoli che quella sinistra avrebbe governato (cioè interpretato) la contemporaneità meglio della destra.

Il centrosinistra italiano in sette anni di governo non è stato capace di legiferare sulle unioni civili, sulla libertà di ricerca scientifica, sul conflitto d'interessi, sulle droghe leggere, sulla procreazione assistita, sulla liberalizzazione dell'accesso alle professioni… In compenso i conti pubblici sono un po’ meno in disordine, mentre quelli delle famiglie non quadrano più. Nulla di ciò che segna oggi l’idea e il concetto di sinistra è stato fatto dalla «sinistra» italiana. In particolare, il campo cruciale delle libertà individuali e dei diritti civili è stato congelato in nome di un malinteso rapporto con il mondo cattolico, dimenticando che la sinistra ha sfondato al centro, negli Anni Settanta, grazie alle battaglie sul divorzio e sull'aborto.

Se non si comincia da qui, cioè dalla definizione di un un’identità radicata nella tradizione e capace di fruttificare nel presente, la sinistra, nonostante abbia persino smesso di chiamarsi così, continuerà a perdere. Fra l’originale e una confusa contraffazione, non è difficile scegliere l’originale.

Paralizzata fra il rifiuto della modernità e l’esaltazione dei suoi aspetti più stupidi, la sinistra dovrebbe invece fermarsi a riflettere, riordinare un po’ le idee, convincersi che il Pci non c’è più (e neppure la Dc), che il mondo non ha bisogno di essere cambiato ma, finalmente, interpretato, e che soltanto fidandosi di se stessa potrà sperare di convincere gli italiani a fidarsi di lei.

Francamente, non so se Veltroni abbia il tempo, la voglia, la capacità o l’interesse a compiere un’impresa del genere. Ma fra i tanti effetti collaterali della disintegrazione della sinistra in Italia c'è stata anche, com’è noto, la disintegrazione sistematica dei suoi leader. Veltroni è l'ultimo: non ci sono alternative, né ruote di scorta. Dunque tocca a lui, e speriamo che ce la faccia.

postato da pd.montagnola

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lunedì 28 aprile 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

Il linguaggio dei vincitori
(Stefano Rodotà - La Repubblica)


SONO francamente ammirato dall'impassibilità con la quale tanti commentatori analizzano i flussi elettorali, esaltano la radicale semplificazione del sistema parlamentare, assumono la Lega come riferimento, si chiedono se siamo entrati nella Terza Repubblica o se la Seconda Repubblica comincia solo ora. Ma tanti dati di cronaca, e le sollecitazioni della memoria, mi fanno poi sorgere qualche dubbio e mi spingono a chiedere se la vera novità di queste elezioni non consista nell'emersione piena di un modello culturale, sulle cui caratteristiche hanno in questi giorni scritto assai bene su questo giornale Nadia Urbinati e Giuseppe D'Avanzo.

Non giriamo la testa dall'altra parte. Quel che è appena accaduto, e si sta consolidando, riguarda davvero "l'autobiografia della nazione". Non riesco a sottovalutare fatti che troppi si sforzano di considerare minori, che vengono confinati nel folklore, assolti da Berlusconi come simpatiche e innocue forzature del linguaggio da parte degli uomini della Lega. E invece dovremmo sapere (quanto è stato scritto su questo argomento?) che proprio il linguaggio è la prima e rivelatrice spia di mutamenti profondi che investono la società e la politica. L'elenco è lungo, e non riguarda solo la storia recentissima.

Si cominciò da pulpiti altissimi con l'aggressività verbale eretta a comunicazione politica quotidiana, considerata troppe volte come una simpatica bizzarria e dilagata poi in ogni possibile contenitore televisivo, sdoganando ogni becerume anche nei luoghi propriamente istituzionali. E il linguaggio non è solo quello verbale. Si sono fatte le corna nei vertici internazionali e si è mangiata mortadella in Senato, si continuano a disertare le manifestazioni del 25 aprile e si elegge il Bagaglino a rappresentante della cultura nazionale.

Commentando il colpo di mano del Presidente della Commissione europea che ha tolto all'Italia le competenze in materia di libertà, sicurezza e giustizia, si è detto che è meglio così, che è preferibile occuparsi di trasporti piuttosto che di "omosessualità". Per fortuna non si è parlato di "culattoni", riprendendo il simpatico linguaggio della Lega: ma, di nuovo, il linguaggio è rivelatore, anche perché rende palese una cultura incapace di comprendere la dimensione dei diritti civili. Sempre scorrendo le cronache, scopriamo che il futuro Presidente della Camera dei deputati apostrofa, sempre simpaticamente, un immigrato come "paraculo" mentre si investe, non si sa a quale titolo, della funzione di controllo dei documenti.

Di un futuro ministro leghista ci viene offerto un florilegio di citazioni su stranieri e immigrati, sulle sanzioni da applicare, che non ha nulla da invidiare ai suoi più noti ed estroversi colleghi di partito. Un bel ponte tra passato e futuro, una indicazione eloquente degli spiriti che nutrono la nuova maggioranza, all'interno della quale si fa sentire sempre più forte la voce di chi invoca la pena di morte, raccogliendo un consenso che rischia di vanificare il grande successo internazionale del nostro Paese come promotore della moratoria contro la pena di morte approvata dall'Onu.

Di fronte a tutto questo dobbiamo davvero ripetere che le parole sono pietre. Suscitano umori, li fanno sedimentare, li trasformano in consenso, ne fanno la componente profonda di un modello culturale inevitabilmente destinato ad influenzare le dinamiche politiche.

Parliamo chiaro. Una ventata razzista e forcaiola sta attraversando l'Italia, e rischia di consolidarsi. Ammettiamo pure che grandi siano le responsabilità della sinistra, nelle sue varie declinazioni, per non aver colto il bisogno di rassicurazione di persone e ceti, spaventati dalla criminalità "predatoria" e ancor più dall'insicurezza economica, vittime facili dei costruttori della "fabbrica della paura". Ma questa ammissione può forse diventare una assoluzione, un modo rassegnato di guardare alle cose senza riconoscerle per quello che davvero sono?

La reazione può essere quella di chi alza le mani, si arrende culturalmente e politicamente e si consegna al modello messo a punto dagli altri, con un esercizio che vuol essere realista e, invece, è suicida? Doppiamente suicida, anzi. Perché non si compete efficacemente quando si parte dalla premessa che la ragione di fondo sta dall'altra parte: l'imitazione servile, in politica, non rende. E, soprattutto, perché si consoliderebbe proprio il modello che, in nome della civiltà, dev'essere rifiutato e combattuto. Le possibilità di ripresa delle forze di centrosinistra passa proprio dalla piena consapevolezza della necessità di una immediata messa a punto di una strategia diversa.

Aggiungo che vi è un elemento meno appariscente di quel modello che ha lavorato nel profondo, che può apparire meno insidioso e che, quindi, può non suscitare la reazione necessaria. Mi riferisco ad una idea di comunità chiusa, che coltiva distanza e ostilità; che spinge a chiudersi nei ghetti; che fomenta il conflitto tra i gruppi sociali contigui. Anche questa è una lunga storia, perché molte ed esemplari sono le "guerre tra poveri".

Che non sono scongiurate elevando muri e neppure predicando una tolleranza che in questi anni si è trasformata in accettazione dell'altro alla sola condizione che faccia ciò che ci serve e che i nostri concittadini rifiutano, alle condizioni che imponiamo: e poi, esaurita questa funzione e calata la sera, quelle persone si allontanino sempre di più, isolandosi nelle loro comunità, lontani dagli occhi e, soprattutto, liberandoci da ogni inquietudine umana e sociale.

Dobbiamo affrancarci dalle suggestioni del comunitarismo, che presero Tony Blair, solleticarono anche qualche politico della nostra sinistra e, ora, rischiano di tornare alla ribalta per chi si fa abbagliare dall'esempio leghista.

Di tutto questo non basta parlare. È questa diversa cultura, che ha tanto giocato anche nell'esito elettorale, a dover essere analizzata. Altrimenti, le considerazioni sui comportamenti elettorali rimarranno monche e le stesse proiezioni nella dimensione istituzionali saranno distorte. Non è solo un doveroso esercizio di pulizia intellettuale. Se si pensa che vi sono emergenze che devono essere fronteggiate con forte spirito politico, e il degrado culturale lo è al massimo grado, bisogna essere chiari e necessariamente polemici.

Guai a dare una interpretazione del "dialogo" tra maggioranza e opposizione che induca a mettere tra parentesi le questioni più scottanti. Bisogna rendersi conto che ammiccamenti e tatticismi qui non servono a nulla, e dire alla maggioranza che in questa materia, davvero, non si può negoziare. Solo così può nascere una alleanza non strumentale tra politica e cultura, che investa anche schieramenti diversi; e, forse, qualche apertura per uscire da un clima che si è fatto irrespirabile.

Un piccolo, finale esercizio di relativismo culturale. Le cronache ci hanno parlato di un Tony Blair sorpreso senza biglietto sul treno tra l'aeroporto e Londra. Anche i nostri giornali hanno biasimato il fatto, riprendendo le giuste reazioni inglesi. Ma, da noi, doveva essere in primo luogo sottolineato come un potente ex primo ministro di una grande nazione non si servisse di auto di Stato. Questi sono i modelli culturali che ci piacciono.

(28 aprile 2008)

postato da pd.montagnola

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giovedì 24 aprile 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO


Elezioni, cinque buoni motivi
per consolarsi della sconfitta
(Ilvo Diamanti - La Repubblica)



Le elezioni suscitano sempre sentimenti opposti, specie in Italia, dove è diffuso il senso di sfiducia reciproco, in base alle appartenenze politiche (e non solo quelle).

Così, dopo ogni consultazione, a seconda del risultato, c'è sempre qualcuno che si prepara alla resistenza oppure alla rivincita. Non importa la posizione sociale. Anche l'uomo della strada è talmente coinvolto che si sente "resistente" oppure "rivendicativo", attraverso l'identificazione nel partito o nel leader di riferimento. Magari, in senso op-positivo, se non positivo. Gli sconfitti, in particolare. Per cui, oggi, gli elettori dei partiti di sinistra si sentono orfani, quelli del Pd delusi. Quelli dell'Udc, più che al centro: presi in mezzo. Quelli che non hanno votato per protesta o per disagio: incazzati. Esattamente come prima.

Tutti si apprestano ad affrontare un lungo inverno. Inquieti e insofferenti. Dovrebbero considerare alcuni motivi di consolazione. Che riguardano, a volte, settori sociali estesi. Altre volte, gruppi limitati oppure singole persone.

1) Gli elettori di partiti di centrosinistra e di sinistra, finalmente, potranno coltivare ed esprimere la propria sfiducia, la propria insoddisfazione senza remore e senza sensi di colpa. Senza sentirsi, in parte, colpevoli e colpevolizzati per aver contribuito a delegittimare il governo della loro parte. O, peggio, per aver fatto "il gioco di Berlusconi". Da oggi, dunque, se "piove, governo ladro". Senza dubbi né esitazioni.

2) Il dilemma dell'asino di Buridano che, da sempre, lacera (letteralmente) il centrosinistra, per un poco, almeno, sarà meno lacerante. Ci riferiamo all'abitudine - frustrante -di invocare, alternativamente, la ragione liberal-liberista, oppure quella social-laburista, a seconda dei momenti. Visto che nel centrosinistra italiano, il linguaggio lib-lab risulta difficilmente utilizzabile e utilizzato. O lib o lab. L'uno o l'altro. Piuttosto, l'uno contro l'altro. Senza compromessi
Da oggi, almeno per qualche tempo, sarà possibile sanare questa contraddizione. I riformisti non dovranno prendersela con i massimalisti (scomparsi letteralmente). I "radicali" non si dovranno più lamentare dei "moderati". Ciascuno a casa propria. Anzi: alcuni (la sinistra radicale) fuori casa.

Questo duplice orientamento, al contrario, tornerà utile, come metodo critico verso l'avversario che governa. Il Centrodestra, Rovesciandogli addosso, a seconda dei casi, accuse di liberismo o laburismo; globalismo o protezionismo; interesse privato oppure indulgenza pubblica.

3) Un altro vantaggio della sconfitta - sicuramente il più benefico per il sistema politico e per le istituzioni - è la semplificazione dell'offerta politica. Ma, soprattutto, la dissoluzione dei "partiti individuali", emersi nel corso della scorsa, breve legislatura. Determinanti ai fini del governo Prodi, ma fattore di ingovernabilità. Soggetti politici, perlopiù, inesistenti sul piano sociale e politico. Partiti individuali senatoriali. Il cui peso, cioè, era dettato dal totale equilibrio di forze che caratterizzava il Senato. E impediva l'effettiva possibilità di decidere, per il governo. L'ascolto, l'attenzione, il potere di cui hanno goduto Pallaro, Dini, De Gregorio. E, ancora, Rossi e Turigliatto. Sono destinati a svanire. Di alcuni di essi ci dimenticheremo. Senza nostalgia.

4) I senatori a vita smetteranno di essere aggrediti perché esercitano le loro prerogative. Cioè: votano. Al loro voto, in questa legislatura, faranno caso in pochi. Rita Levi Montalcini, finalmente, potrà riposare. Pensare a se stessa. Troppo spesso dal suo voto è dipesa la sorte della maggioranza. Da oggi, per fortuna, ogni tanto potrà restarsene a casa; oppure recarsi altrove; partecipare a un convegno; ritirare un riconoscimento. Come non le capitava da due anni.

5) Anche Romano Prodi tirerà il fiato. Sta chiudendo il suo mandato e si prepara a partire, cercando di non dare nell'occhio. Quasi scusandosi della propria presenza. Come avesse fatto qualcosa di male. Come se non fosse l'inventore dell'Ulivo e del Pd. Quello che ha battuto Berlusconi una volta e mezzo. Da domani non farà più da capro espiatorio di ogni problema. Di ogni crisi. Non farà più da parafulmine alla sfiducia e alla delusione. Il puntaspilli degli esorcismi di avversari e di alcuni amici. A Berlusconi, crediamo, mancherà assai presto. Più avanti, molti italiani lo rivaluteranno. Siamo pronti a scommetterci.

Aggrediti dalla depressione, gli elettori di sinistra e di centrosinistra, non avranno più bisogno di dissimulare il loro sentimento. Da ora, si tratterà di un problema per chi governa. Fra un po', cominceranno ad apprezzare le virtù consolatorie della sconfitta; della condizione minoritaria. Dopo due anni di "vita spericolata" (e ansiogena) si dedicheranno a una "vita tranquilla".

A meno che non vogliano davvero cambiare orientamento. Fare sul serio. Esercitare un'opposizione responsabile e "costruttiva". Suggerire, proporre, controllare. Partecipare, comunque. Condividere. Come in una "normale" democrazia competitiva, dove ciascuno cerca di vincere, di battere l'altro. Ma, poi, tutti remano nella stessa direzione. Comunque, immaginiamo che, anche prima di affrontare questa prospettiva, si prenderanno una pausa. Di riposo, più che di riflessione. Una vacanza. Perché, dopo due anni stressanti e faticosi come questi, diventare "normali" da subito: sarebbe troppo.



(24 aprile 2008)

postato da pd.montagnola

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lunedì 21 aprile 2008

COMMENTI AI RISULTATI DELLE ELEZIONI

Eletti del Circolo PD Montagnola:

Valeria Baglio
Claudio Mannarino
Bernardo Campitiello (Lista Civica per Rutelli)






Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo di Pietro Malara (iscritto al Circolo PD Montagnola) al dibattito del blog:

http://romanordxilpd.blogspot.com/2008/04/il-sogno-infranto-una-sconfitta-che.html:

Permettetemi di dissentire dal dissenziente.
La sconfitta c'è stata ed era a mio avviso abbastanza prevedibile. Fino
ad ora la coalizione si era retta con grande fatica proprio su quel
lavoro di tessitura operosa ed incessante che Romano Prodi stava
conducendo da oltre un decennio ed iniziata con l'esperienza dell'ulivo.
Di questa opera si erano giovati senza ammetterlo con grande presunzione
i partiti della sinistra a cominciare da rifondazione, comunisti
italiani e via dicendo. Ora che veltroni ha reciso questi legami la
pochezza di queste formazioni è venuta tutta alla luce. La sinistra e
rifondazione in particolare hanno pagato giustamente a mio avviso
intanto la loro ingratitudine, facendo fallire un progetto lungimirante,
e poi la profonda ambiguità della sinistra italiana: al governo perché
conviene per strappare qualche consenso e moltà visibilità, sugli scudi
e quasi avversari per difendere una presunta diversità di progetto
politico se gli umori degli elettori lo richiedevano. E' comodo
prefigurare una società diversa in qualche modo anticapitalista e poi
contrattare sindacalmente ogni provvedimento sul campo ostacolando
l'azione del governo e prendere posizioni in politica estera non
realisticamente sostenibili. La sinistra ha pagato molto duramente
questa ambiguità. Me ne dispiace a fondo perché la sconfitta è di tutti.
Ma non si può proporre un modello comunque alternativo di società e poi
giocare sul filo degli equilibri, ostacolare l'azione di governo, per
strappare qualche provvedimento che può riscuotere consenso.
L'elettorato l'ha capito. Il progetto intelligente di Romano Prodi di
acquisire alla cultura di governo e amalgamare tutto il centro sinistra
è stato fatto fallire ed è questo che ci riporta a Berlusconi. Se si
propone un modello diverso di società ed è più che legittimo farlo, che
magari è in anticipo di venti trent'anni sui tempi di evoluzione di
società e costumi è bene stare all'opposizione nella speranza che questo
modello sia realizzabile e ancora apprezzato nei tempi futuri.
Quanto all'atteggiamento identificato come troppo aggressivo del
governo verso imprenditori e settori correlati, non credo proprio che vi
sia stato. La lotta all'evasione o elusione fiscale è sacrosanta e
consente di operare nella società con pari diritto e dignità e ha dato
rsultati eccellenti, mentre gli investimenti all'estero e le
esportazioni sono aumentati come mai era successo prima e le imprese
italiane hanno conquistato quote di mercato di tutta rilevanza.
IlGoverno Prodi ha puntato , giustamente e realisticamentre soprattutto
su questi due assi ottenedo grandi progressi. I soloni dei partiti
satelliti a cominciare dai socialisti hanno solo cercato la visibiltà
personale prendendo esempio da chi dicono di contrastare.
L'azione di Governo non è però stata incisiva su un altro versante. Un
versante che all'elettorato più mobile e se vogliamo meno schierato
ideologicamente sta molto a cuore. Il rispetto della legalità, la
distanza assoluta e intransigente da clientelismo e consociativismo, il
rispetto delle regole, il rifiuto dei favoritismi e delle
raccomandazioni, un terreno molto sensibile sul quale non si è brillato
molto e anzi fin dall'inizio si è partiti col piede sbagliato imbarcando
nella squadra un campione assoluto dei vecchi sistemi clientelari, che,
ironia del destino è stata il casus belli della caduta del governo. Su
questo terreno si doveva e ritengo si dovrà fare molto di più,
altrimenti gli elettori preferiscono salire sul carro del più forte
economicamente e più indulgente sul rispetto della legalità, e nelle
maglie della pubblica amministrazione, non essendo disposti a fare
sacrifici consistenti se non si intravede un reale cambio di rotta.
E questo cambio di rotta deve partire dalla pubblica amministrazione,
riserva di caccia dei politici e non come dovrebbe essere esempio
portante di buon governo e civiltà. Credo che questi aspetti siano stati
sottovalutati o forse anche, in parte, non c'è stato il tempo di
considerarli nella giusta rilevanza e agire di conseguenza.
Un'ultima considerazione. Intuendo che saremmo stati sconfitti avevo
espresso più di un dubbio sulla scelta diVeltroni di correre da soli. La
sconfitta c'è stata ma probabilmente ora si è fatto un po' più di
chiarezza. Si è potuto misurare il consenso alla sinistra italiana
quando non ha le stampelle dei tanto vituperati riformisti e di Romano
Prodi in particolare, e si può, se si vuole, ricostruire un
centro-sinistra epurato dalle appendici clientelari e compromissorie che
sappia trasmettere realmente il senso di un cambiamento all'elettorato.
L'Italia dei valori può essere molto utile in questa direzione.Invito
pertanto a tenere ferma la barra e non accettare nel PD chi non ne
accetta principi, linea poltica e obbligo di coerenza


Pietro Malara
Ministero della Salute.

postato da pd.montagnola

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domenica 20 aprile 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

Per chi suonano
le campane di Bossi
( Eugenio Scalfari – La Repubblica)


ROMA - Io non credo che chi ha sperato nella vittoria del Partito democratico abbia confuso i suoi sogni con la realtà e un paese immaginario con quello esistente. Credo che esistano due paesi reali, due contrapposte visioni della politica e del bene comune come sempre accade in tutti i luoghi dove è assicurata la libera espressione delle idee e la libera formazione di maggioranze che governano e di minoranze che controllano il rispetto della legalità e preparano le alternative future. Molti amici mi hanno chiesto nei giorni scorsi come mai chi si è battuto per la vittoria dei democratici (ed io sono tra questi) non ha percepito che essa era impossibile.

Ma non è vero. Sapevamo e abbiamo detto e scritto che sarebbe stato miracoloso riagguantare nelle urne elettorali un avversario che nel novembre del 2007, quando si è aperta la gara, aveva nei sondaggi un vantaggio di oltre 20 punti e c'erano soltanto quattro mesi di tempo prima del voto. Se l'avverarsi di un'ipotesi viene definita miracolosa ciò significa che le dimensioni dell'ostacolo da superare non sono state sottovalutate ma esattamente pesate per quello che realmente erano. Tuttavia un errore è stato certamente commesso: non è stata avvertita l'onda di piena della Lega.

Non se n'è accorto nessuno, gli stessi dirigenti di quel movimento ne sono rimasti felicemente stupiti. Fino alle ore 16 del lunedì elettorale la Lega veniva data nei sondaggi attorno al 6 per cento. Nessuno le attribuiva di più e i leghisti sarebbero stati soddisfatti di quel risultato. Stavano marciando verso il 9 per cento su scala nazionale con punte fino al 30 nel lombardo-veneto e successi consistenti in tutta la Padania anche sulla riva destra del Po, e non lo sapevano.

Se si confrontano i risultati elettorali tra il partito di Veltroni e quello guidato da Berlusconi e Fini, la differenza è più o meno di 4 punti, tra il novembre e l'aprile il recupero è stato dunque di 16 punti percentuali.

La vittoria della Lega in quelle dimensioni è stata la sorpresa e qui va approfondita l'indagine, scoperte le cause dell'errore e la natura profonda di ciò che è avvenuto senza trascurare la Lega siciliana di Lombardo e del suo alleato Cuffaro, che anch'essa merita la massima attenzione.

* * *
Si dice sempre più frequentemente che i termini di Sinistra e Destra non esprimono più la natura politica della realtà. Probabilmente è vero e non da poco tempo. Il crollo delle ideologie ha accelerato la rivelazione di un fenomeno già presente da anni.
Del resto quelle due parole sono nate e sono entrate nell'uso comune nel corso dell'Ottocento. All'epoca della Rivoluzione dell'Ottantanove non si parlava di Destra e di Sinistra, si parlava di monarchici e repubblicani e poi di montagnardi e di girondini, in Inghilterra di conservatori e di liberali. Al tempo d'oggi in una società come la nostra si può correttamente parlare di riformisti che puntano sulla modernizzazione del paese, dell'economia e dello Stato, ai quali si contrappongono coloro che vogliono recuperare l'identità e la sicurezza. In un certo senso sono anch'essi riformisti. Per realizzare modernità e innovazione ci vogliono profonde riforme, ma anche per recuperare sicurezza identitaria ce ne vogliono. Riforme in un senso, riforme in un altro. Due contrapposte visioni di Paese e di ruoli.

E' fin troppo ovvio dire che nell'una e nell'altra di queste visioni esistono elementi della visione opposta. E' diverso il dosaggio e questo fa una differenza non da poco che si estende ben oltre la politica, determina diversità di costume, di stili di vita, di impegno del tempo libero, di letture, di sentimenti, di scelte.
C'è infatti un altro elemento che entra in questo complesso incastro di messaggi e di dosaggi ed è un elemento tipicamente culturale. Si può definire come rapporto tra il tempo e la felicità.

Le generazioni più giovani sono state schiacciate sul tempo presente, la memoria del passato interessa loro poco o nulla, non sembrano disposte a condividere quel tanto di felicità attuale con le generazioni che le seguiranno. Questo rapporto tra felicità e tempo è un fenomeno relativamente recente e ha prodotto una serie di effetti non sempre positivi. Per esempio lo scarso tasso di nuove nascite e la richiesta sempre più pressante di protezione sociale ed economica. Un altro effetto lo si vede nel localismo degli insediamenti più produttivi e più ricchi: contrariamente a quanto finora era accaduto sono proprio le comunità più agiate ad aver perso di vista i cosiddetti interessi nazionali dando invece schiacciante prevalenza a quelli del territorio dove essi risiedono. Si tratta di un aspetto essenziale per capire la vittoria leghista di così ampie dimensioni. La Pianura Padana è un pezzo dell'Europa agiata; l'Italia peninsulare comincia a sud-est delle Alpi Marittime e a sud dell'Appennino Tosco-Emiliano, all'incirca seguendo la vecchia linea gotica d'infausta memoria.

Questo luogo sociale e politico considera, da trent'anni in qua, l'Italia peninsulare come un fardello da portare sulle spalle senza ricavarne alcun vantaggio. Perciò è ormai convinta della necessità di un federalismo fiscale che si riassume così: il peso delle tasse deve diminuire per tutti e almeno i due terzi del gettito dovrà rimanere sul territorio dove viene generato.
L'altro terzo andrà allo Stato centrale per i suoi bisogni primari cioè per il funzionamento dei servizi pubblici indivisibili.

Da questa concezione l'idea di una redistribuzione del reddito con criteri sociali e geografici è del tutto assente. Lo slogan per definire lo spirito di questa filosofia potrebbe essere "chi fa da sé fa per tre". Ognuno pensi ai suoi poveri, ai suoi bambini, alle sue famiglie, ai suoi artigiani, alle sue partite Iva. E vedrete che anche i "terroni" si troveranno meglio di adesso.

* * *
In un mondo globale questa visione significa costruire compartimenti stagni che separano le comunità locali dall'insieme. Significa dare vita ad un Paese non più soltanto duale (il Nord e il Sud) ma con velocità plurime e con dislivelli crescenti all'interno stesso dei distretti più produttivi e più agiati e con contraddizioni mai viste prima.

Ne cito alcune. Le imposte pagate da imprese delle dimensioni di una Fiat, di una Telecom, di un Enel, di un Eni, di una Finmeccanica così come le grandi banche o le grandi compagnie d'assicurazione presenti in tutto il Paese, dove saranno incassate e da chi? Si scorporerà il loro reddito stabilimento per stabilimento, il valore del gas e del petrolio importati e altre grandezze economiche difficilmente divisibili sul territorio? Oppure per dare attuazione a questo tipo di federalismo fiscale si prenderà in considerazione la natura delle varie imposte e tasse? L'Iva resterà nei luoghi dove viene pagata? E le imposte sui consumi? E quelle sui redditi personali o aziendali? Un ginepraio. E' possibile che la creatività di Giulio Tremonti ne venga a capo, ma non sarà certo una facile impresa.
Segnalo tuttavia una contraddizione difficilmente risolvibile. La maggioranza relativa dei pensionati vive nelle regioni del Nord; in esse infatti c'è stato e c'è maggior lavoro e quindi maggiori pensioni. Nel Nord vive anche gran parte dei possessori di titoli pubblici.
L'erogazione delle pensioni e il pagamento delle cedole sui titoli di Stato costituiscono una fonte imponente di uscite dalle casse dello Stato verso le regioni del Settentrione.

Come verrà valutato in un'Italia a compartimenti stagni questo flusso imponente di spesa pubblica?
La verità è che l'idea di trattenere due terzi delle entrate sui territori locali è pura demagogia inapplicabile in quelle proporzioni. Ma intanto la gente ci crede così come crede anche che la sicurezza pubblica sarà migliorata se una parte dei poteri che oggi incombono all'autorità centrale sarà attribuita ai sindaci e ai vigili urbani.

* * *
Qui viene a proposito meditare sulla Sicilia autonomista di Lombardo e Cuffaro.
Si tratta di province potenzialmente ricche ma attualmente povere. Province deturpate da secoli di lontananza dal mercato e dalla presenza del racket, di poteri criminali, di traffici illegali e mafiosi.
Oggi è in atto, per merito di industriali e commercianti coraggiosi, una nuova forma di lotta contro il racket che ha già avuto le sue vittime e i suoi morti. La politica centrale e soprattutto quella locale avrebbero dovuto precedere o quantomeno affiancare questa battaglia ma non pare che ciò sia avvenuto, anzi sembra esattamente il contrario per quanto riguarda i poteri locali, molti dei quali infiltrati da illegalità e mafioseria.

Tra le istituzioni e la criminalità organizzata esiste da tempo e si allarga sempre più un'ampia zona grigia, un impasto di indifferenza, contiguità, tolleranza, collusione. Il confine tra la zona grigia e i mercati illegali non è affatto blindato anzi è largamente permeabile. Si svolge un continuo andirivieni da quelle parti, gente che va e gente che viene. Si attenuano le asprezze dell'ordine pubblico in proporzione diretta all'andirivieni sul confine tra zona grigia e poteri criminali. Più il potere criminale riesce a legalizzare i suoi membri, i loro figli, i loro nipoti, più diminuisce la crudeltà della lupara. Ricordate il Padrino? La dinamica è quella.

Ma torniamo alla Sicilia di Lombardo. Aumenteranno le richieste di denaro pubblico e di autonomia locale della loro gestione. Non dimentichiamo che i padri dei Lombardo e dei Cuffaro volevano il separatismo, così come il Bossi di vent'anni fa voleva la secessione. Adesso sia gli uni che gli altri hanno capito che una forte autonomia abbinata a un altrettanto forte separatismo fiscale configurano una secessione dolce e duratura.

I due separatismi del Nord e del Sud hanno come obiettivo primario le casse dello Stato e come conseguenza la competizione tra loro a chi riuscirà meglio nell'impresa.

E' infine evidente che per fronteggiare una situazione di questo genere i poteri di quanto resta dell'autorità centrale dovranno essere rafforzati da robuste dosi di autoritarismo per tenere insieme le forze centrifughe operanti in tutto il sistema.

* * *
Questo quadro è qui descritto al nero ma può anche essere raccontato in rosa anzi in azzurro: un'autorità centrale forte ma democratica, un'articolazione regionale rappresentata dal Senato federale non diversamente da quanto accade nel sistema tedesco.
Ma sta di fatto che la Germania dispone di elementi centripeti molto robusti mentre in Italia la centrifugazione localistica è una costante secolare, anzi millenaria.

Quella che un tempo si chiamava sinistra trovava la sua identità nell'ideologia della classe. Ma la classe ormai non c'è più e perciò la sinistra è affondata. E' curioso che per spiegare la sparizione della sinistra dal Parlamento del 2008 si cerchino motivazioni di carattere elettorale.

Eppure, specie da parte di chi ancora pensa marxista, la spiegazione è evidente: quando una certa struttura delle forze produttive viene meno, l'effetto inevitabile è che scompaia anche la sovrastruttura che quelle forze avevano prodotto e configurato. Questi fenomeni erano già presenti da anni nella società italiana; i nodi sono arrivati al pettine in questa campagna elettorale.
Il popolo sovrano che si è manifestato nelle urne elettorali del 14 aprile è, con una maggioranza di oltre tre milioni di voti, più localistico che nazionale, vive più il presente che il futuro, è più identitario che innovatore e più protezionista che liberale. Questi sono dati di fatto con i quali è difficile anzi inutile polemizzare. Il Partito democratico ha conservato per fortuna la memoria del passato ma ha cambiato posizione e linguaggio diventando la maggiore forza politica a sostegno dell'innovazione e della modernizzazione delle istituzioni e della società.
Per spostare su questa strada le scelte future del popolo sovrano ci vorrà però uno sforzo senza risparmio soprattutto in due settori: la presenza sul territorio e una progettazione culturale che capovolga quella esistente. Soprattutto nel rapporto tra il tempo e la felicità, che deve includere anche gli esclusi e i nipoti. Non è compito da poco, significa recuperare nello stesso tempo il valore del passato e la creatività del futuro. Perciò basta con le condoglianze e buon lavoro per la democrazia italiana.

(20 aprile 2008)

I quartieri perduti
(Michele Serra – La Repubblica)


ROMA - Due stupri a Milano e Roma, in entrambi i casi ai danni di ragazze straniere venute a studiare in Italia, in entrambi i casi commessi da immigrati clandestini, infiammano gli strascichi dell'eterna campagna elettorale italiana. Pochi - purtroppo - gli elementi di razionalità disponibili. Comprese le cifre (violenze sessuali in diminuzione) inutilmente fornite dal ministro degli Interni uscente, Giuliano Amato.

Si sa, del resto, che ben al di là delle statistiche esiste una "insicurezza percepita", che questa percezione è in costante crescita, e che (soprattutto) aumenta mano a mano che ci si allontana dai quartieri benestanti, dai ceti meglio protetti e anche meglio informati, e ci si avvicina alla vita di strada, a chi frequenta i mezzi pubblici, le stazioni, le periferie, i luoghi di transito. Avere trascurato questo dato di fatto (il sentimento dell'insicurezza è soprattutto un sentimento "popolare", un sentimento di strada) è costato carissimo alla sinistra in termini di credibilità politica e in termini elettorali. Ovvio che il candidato della destra al Comune di Roma, Alemanno, soffi sul fuoco dell'allarme sociale, sperando di lucrare qualche voto in più. Altrettanto scontato il repertorio leghista, con Roberto Castelli che invita a "fermare l'orda dei barbari" secondo l'arcinoto repertorio di "difesa etnica" già ampiamente premiato dalle urne. E non per questo meno ripugnante.

Meno netta, e non da ora, è l'intenzione complessiva della sinistra, compresa e anche dispersa in quel vastissimo territorio che va dalla difesa dello stato di diritto alla repressione dei crimini, dall'accoglienza degli stranieri alla necessità di imporre anche a loro il rispetto delle nostre leggi: operazione, quest'ultima, di particolare difficoltà nel caso di popoli e culture che hanno delle donne un concetto sovente "proprietario", dunque rapinoso e violento.

Al netto di tutto questo, che fa parte di uno scenario davvero trito (destra aggressiva, sinistra confusa), ci si domanda che cosa servirebbe, in sostanza, per migliorare la situazione, o comunque per arginarne gli effetti più cruenti. E la prima cosa che viene da dire è insieme la più ovvia e, probabilmente, la più giusta: maggior controllo del territorio, maggiore presenza delle forze dell'ordine. Elemento di visibile dissuasione (e di altrettanto visibile rassicurazione) del quale si parla da lunghi anni, attraverso diverse legislature e governi di centrodestra e centrosinistra, ma senza risultati apprezzabili. Di "vigili di quartiere", sul modello inglese, si sente parlare da tempo immemorabile, ma nessuno di noi ha avuto la fortuna di conoscerne uno. Di lamentele sullo spreco di personale negli uffici, di eccesso di mansioni burocratiche, idem. Eppure, non c'è mai stato un tangibile segnale di recupero sul territorio. Manca la percezione concreta di una svolta "di strada" per un problema "di strada", quello della sicurezza fisica, dell'incolumità personale, che è gravissimo, delicatissimo, e fa parte a pieno titolo dei diritti fondamentali della persona.

La tentazione delle varie "ronde" più o meno spontanee, più o meno manesche, nasce esattamente dal timore che l'arretramento dello Stato, sul terreno tutt'altro che simbolico delle città, dei quartieri, delle periferie, sia anche un arretramento "politico": cioè il frutto di una inadempienza tecnica, pragmatica, di una incapacità di cambiare marcia. Sotto una fitta cappa di polemiche tra l'altro penosamente sempre identiche, con le stesse parole, gli stessi schemini "ideologici", gli stessi ruoli, rischia di esserci il vuoto, l'inerzia legislativa, l'assenza di risposte. Il migliore politico, sul terreno della sicurezza, è quello che parla di meno e comincia a contare quante divise ha a disposizione lo Stato, e come sistemarle sul terreno per vincere la guerra del diritto alla sicurezza.

(20 aprile 2008)

postato da pd.montagnola

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mercoledì 16 aprile 2008

ANALISI DEL VOTO

Milano nell'Italia che cambia
(Giorgio Bocca - La Repubblica)


DI CHE umore è Milano dopo il voto? Forzisti berlusconiani e leghisti bossiani festeggiano, ma non fraternamente. Le due tribù che hanno vinto sono divise e confuse. Il voto, i suoi risultati strabilianti hanno sorpreso anche loro.
Numeri alla mano si è capito che molti dei voti andati alla Lega sono di berlusconiani stanchi degli appetiti eccessivi del leader, del suo protagonismo megalomane, e hanno preferito la Lega, hanno preferito Bossi.

Hanno vinto, ma hanno perso la loro identità, non sanno più quello che sono, se di destra o di sinistra, come gli ex-operai comunisti passati dal Pci al Carroccio, dalla Cgil a Rosy Mauro. E anche noi, sopravvissuti alle elezioni, non abbiamo capito bene chi siamo, chi sono questi milanesi metà moderati e metà pronti a "prendere il fucile", come dice con una metafora il loro capo, per dare la caccia agli immigrati delinquenti.

Fra i milanesi sconfitti la costernazione è profonda, il lutto totale, tutti stanno un po' come Romano Prodi: hanno dato le dimissioni da tutto, idee e posti di comando, non pensano alla rivincita, vogliono dimettersi, rinunciare. Come Prodi, tutti vorrebbero voltare le spalle alle speranze e alle illusioni, a questa Italia incomprensibile.

Sanno di essere sconfitti, ma cos'è questa Italia vincente? Quali sono i valori in cui crede, i suoi ideali, le sue utopie? Nessuno lo sa, nessuno lo capisce. Una volta ai milanesi della Madunina piacevano gli uomini sinceri con il "cuore in mano". Ma per che cosa hanno votato? Non lo sanno che il voto nelle province meridionali è stato un voto chiaramente segnato dalla mafia? Non lo sanno che i nuovi leader meridionali, molti dei nuovi eletti, sono amici dei pezzi da novanta? E' dunque la mafia che piace agli elettori milanesi? Certamente no. Ma gli piace vincere, gli piace il potere, gli piacciono i soldi. Ecco quello che la sinistra, radicale o socialdemocratica, ha sottovalutato.
In un mondo in cui non si leva più il Sol dell'avvenire, in cui è morta l'utopia del socialismo, in cui la pubblicità consumista ha sostituito tutti i buoni pensieri e le buone intenzioni, la cosa che conta, che tutti desiderano qual è? I soldi. Pochi, maledetti e subito, come si dice, e il nuovo leader glieli ha promessi, e anche il lumbard Bossi li ha promessi con la sua Malpensa targata Carroccio, con la sua Expo 2015, con la sua Lombardia del federalismo fiscale, locale, regionale, che nessuno capisce cos'è. Le tasse che versano gli abitanti di una regione restano sotto il controllo di quella regione. E chi pensa alla nazione, alla sua unità, all'Italia una e indivisibile? Si vedrà, ma intanto chi ha i soldi se li goda, gli altri si aggiustino.

Questa sembra l'unica morale accettata, l'unica morale corrente. I milanesi sconfitti, più che tristi, sono svuotati, incapaci di capire. Lo tsunami politico che li ha travolti li ha lasciati nudi in mezzo ai rottami della società. Che cosa vogliono gli italiani? Si chiedono: davvero è finito il tempo in cui il vecchio repubblicano Ugo La Malfa li esortava così: "Nel dubbio aggrappati alle Alpi", e i socialisti "nel dubbio aggrappati a Molinella"? Una sola consolazione: ne abbiamo viste di peggio.

Sondaggi e "partiti maledetti"
(Luca Ricolfi - La Stampa)

Il risultato elettorale ha preso alla sprovvista un po’ tutti, ma fra i cosiddetti osservatori - giornalisti, commentatori, studiosi, sondaggisti - lo sgomento è particolarmente acuto. Possibile che nessuno avesse intuito che cosa bolliva nella pentola della società italiana? Come mai, a due soli anni dalla catastrofe del 2006, la maggior parte degli exit-poll e dei sondaggi non sono riusciti a prevedere il risultato finale?

Ma soprattutto: perché, nelle previsioni, la sinistra è spesso sopravvalutata e la destra sottovalutata? Nel 2006 i sondaggi prevedevano una comoda vittoria di Prodi, mentre il risultato è stato un pareggio quasi perfetto. Nel 2008 i sondaggi degli ultimi giorni prevedevano una vittoria risicata di Berlusconi, o addirittura un pareggio, mentre il risultato finale è stato un trionfo della destra. Perché?

La risposta più onesta è che non lo sappiamo, e possiamo solo fare delle congetture. Fra le molte ragioni che possono aver determinato questi due scacchi consecutivi, tuttavia, ve n’è una che a me pare più importante delle altre. Gli psicologi sociali la chiamano «desiderabilità sociale», Marcello Veneziani parecchi anni fa parlò - più crudamente - di «razzismo etico». In breve si tratta di questo: quando una persona viene intervistata le sue risposte non sono influenzate solo da quel che l’intervistato pensa, ma anche da quel che l’ambiente intorno a lui gli suggerisce di pensare. Proprio così. La società, il gruppo di riferimento, i media definiscono continuamente ciò che è bene, ciò che è appropriato, ciò che è corretto, ciò che è «in». Simmetricamente definiscono ciò che è male, ciò che è inappropriato, ciò che è scorretto, ciò che è «out». Se in una società le istituzioni richiamano continuamente determinati valori (ad esempio la solidarietà) e stigmatizzano sistematicamente determinati atteggiamenti (ad esempio l’ostilità verso gli immigrati), una parte degli intervistati preferisce non rivelare le proprie preferenze se esse sembrano confliggere con ciò che è considerato socialmente desiderabile.

Che centra tutto questo con il voto di domenica? C’entra, ma bisogna far intervenire nel discorso il razzismo etico. Una parte della società italiana è afflitta da razzismo etico, nel senso che considera moralmente inferiore chi vota per forze politiche cui essa - la parte sana del Paese - non riconosce piena legittimità democratica. Specie fra coloro che esercitano professioni artistiche o intellettuali dichiararsi di destra, o peggio votare un partito come la Lega, o Forza Italia, o la Destra provoca imbarazzo, sdegno, costernazione, incredulità. Di fronte a certe persone, confessare di aver insidiato una bambina è meno imbarazzante che confessare di aver votato per il partito di Calderoli.

Questo sentimento di disapprovazione non è quasi mai esplicito, ma genera un clima che definirei di intimidazione dolce. Tutti possono dire e fare quel che vogliono, ma sanno anche che - in molti contesti - saranno giudicati severamente se confesseranno di aver votato determinati partiti. In breve, c’è una parte del Paese che si sente nella posizione di giudicare gli altri, e c’è una parte del Paese che - proprio per questo - si sente permanentemente sotto esame. In questo diabolico meccanismo è caduto persino Veltroni, che pure aveva fatto del rispetto dell’avversario una delle novità fondamentali della sua campagna elettorale: qualche giorno prima del voto, sfidando Berlusconi a sottoscrivere quattro principi di «lealtà repubblicana», si è posto nella posizione di chi, in quanto depositario del bene, si sente autorizzato a fornire patenti di legittimità democratica all’avversario politico (da questo punto di vista le posizioni girotondine appaiono molto più coerenti, o meno insincere: chi pensa che Bossi e Berlusconi siano due pericoli mortali per la democrazia, giustamente considera un errore politico la linea del pieno rispetto dell’avversario).

Può sembrare incredibile, ma le ricerche degli studiosi dimostrano che - quando è intervistata - la gente si vergogna di un sacco di cose, comprese le più innocenti (ad esempio guardare parecchia televisione). Del resto ce l’aveva già spiegato Altan molti anni fa, con la famosa vignetta in cui il militante di sinistra confessa a se stesso: «A volte mi vengono delle idee che non condivido». Se le cose stanno così, il fallimento dei sondaggi diventa meno inspiegabile. Nella cultura italiana i luoghi comuni della sinistra «politicamente corretta» sono diffusi in modo leggero ma capillare. Per molti cittadini progressisti o illuminati se voti Forza Italia come minimo sei un affarista, un mafioso, o un abbindolato. Se voti Lega sei una persona rozza, egoista e intollerante. Se voti i post-fascisti non hai diritto di sedere al desco dei veri democratici. Se sei di sinistra e ti capita di comprare il Giornale ti guardano come se avessi acquistato un rotocalco pornografico (è successo a me).

Insomma, non è sempre e ovunque così ma lo è spesso, specie nei luoghi che contano. Molti elettori di destra se ne infischiano, ma una parte non trascurabile di essi preferisce tenere coperte le proprie carte. Sul lavoro, nelle cene, al bar, ma anche nei sondaggi. Se pensi di votare un partito «democratico» o pienamente sdoganato non hai seri timori a rivelare la tua scelta, ma se hai in animo di votare un «partito maledetto» - ossia un partito di cui i «sinceri democratici» dicono tutto il male possibile - puoi essere tentato di non scoprirti, magari dichiarandoti indeciso, o astensionista, o sostenitore di un partito né carne né pesce (è per questo che, in passato, i Verdi erano sempre sopravvalutati nei sondaggi). Qualche anno fa mi è capitato di scrivere, anche sulla base di una analisi degli atteggiamenti dell’elettorato italiano, che il «complesso dei migliori» era una delle grandi malattie della cultura di sinistra. Il fatto che ancor oggi tante persone preferiscano non rivelare il loro voto quando esso si indirizza verso i «partiti maledetti» mi fa pensare che, nonostante Veltroni (o grazie a lui?), da quella malattia l’Italia non sia ancora uscita.

L'eterno ritorno
del Cavaliere

(Ezio Mauro - La Repubblica)


Questa Italia del 2008 ha infine deciso di scegliere Silvio Berlusconi e la sua destra. È una vittoria elettorale che peserà a lungo sul Paese e sui suoi equilibri, non soltanto per i dati più evidenti, come il distacco di nove punti dall'avversario e la soglia di sicurezza raggiunta alla Camera e soprattutto al Senato grazie anche al concorso decisivo della Lega.

C'è qualcosa di più. Sopravanzato nell'innovazione per la prima volta dall'inizio della sua avventura pubblica, il Cavaliere si è trovato di fronte ad una forte novità politica come il Pd nell'altra metà del campo, capace di chiudere la storia troppo lunga del post-comunismo italiano e di posizionare una sinistra riformista al centro del gioco politico: ristrutturandolo attorno ad un partito a vocazione maggioritaria deciso a parlare a tutto il Paese, dopo essersi separato per la prima volta dalla sinistra radicale. Berlusconi ha inseguito l'avversario, ha inventato su due piedi una costruzione politica uguale e contraria - il Pdl - per impedire che il Pd diventasse il primo partito, si è liberato dei cespugli di destra e di centro, e con questa reincarnazione ha riordinato a sé l'area di centrodestra, riconquistando per la terza volta il Paese.

È questo eterno ritorno la scala su cui va misurato il fenomeno Berlusconi. La vittoria di oggi infatti va letta non tanto come il risultato di una campagna elettorale in do minore ma come il sigillo di un'epoca, cominciata quindici anni fa.

Il Cavaliere l'ha aperta con la sua "discesa in campo", le televisioni, la calza sulla telecamera, il doppiopetto, la riesumazione decisiva di Fini dal sepolcro postfascista, ma anche un linguaggio di rottura, un'ostile difesa di se stesso dalla giustizia della Repubblica, la fondazione di una "destra reale" che il Paese non aveva mai conosciuto, frequentando a quelle latitudini soltanto fascismo o doroteismo.

Quindici anni dopo lo stesso linguaggio che ci è sembrato stanco per tutta la campagna elettorale, lo stesso corpo del leader offerto come simulacro immutabile e salvifico della destra, la stessa retorica politica incentrata sul demiurgo hanno invece convinto ancora e nuovamente gli italiani, siglando il quindicennio. In mezzo, ci sono tre Presidenti della Repubblica, cinque Premier, due sconfitte e due vittorie per il Cavaliere, dunque un'intera stagione politica, che va sotto il nome in codice di Seconda Repubblica. Sopravvissuto a tutto, governi avversi e accuse di reati infamanti cancellati da un Parlamento trasformato in scudo servente e privato, partner internazionali che intanto hanno regnato e si sono ritirati, un conflitto d'interessi così perfetto da passare intatto attraverso le ere politiche, Berlusconi suggella il quindicennio con se stesso, unica vera misura dell'impresa, cifra suprema della destra, identificazione definitiva tra un leader e il destino della nazione, secondo la ricetta del più moderno populismo.

Cos'è questa capacità di mordere nel profondo del Paese, e di tenerlo in pugno? In un'Italia che non ha mai nemmeno rivelato a se stessa la sua anima di destra, ombreggiandola sotto l'ambigua complessità democristiana, il Cavaliere ha creato un senso comune ribelle e d'ordine, rivoluzionario e conservatore, di rottura esterna e di garanzia interna, che lui muove e agita a seconda delle fasi e delle convenienze, in totale libertà: perché non deve rispondere ad una vera opinione pubblica nel partito (che non ha mai avuto un congresso dal 1994) e nel Paese, bastandogli un'adesione, un applauso, una vibrazione di consenso, come succede quando la politica si celebra in evento, i cittadini diventano spettatori e i leader si trasformano in moderni idoli, per usare la definizione di Bauman. Idoli tagliati a misura della nuova domanda che non crede più in forme di azione collettiva efficace, idoli "che non indicano la via, ma si offrono come esempi".

Sta qui - e lo dico indicando l'assoluta novità del fenomeno - il fondamento del risorgente populismo berlusconiano, un populismo della modernità, che supera la cattiva prova di governo del quinquennio di destra a Palazzo Chigi, l'età avanzata, l'usura ripetitiva, la fatica del linguaggio ("sceverando", "mondialmente", "gerarchicizzare"), il gigantismo delle promesse, le ossessioni private trasformate in priorità della Repubblica, come il perenne regolamento di conti con la magistratura. E' un fenomeno che può allargarsi all'Europa, perché in tempi di globalizzazione e di disincanto civico può dare l'illusione di una semplificazione dei problemi, tagliando con la spada del leader i nodi che la politica si esercita con fatica a sciogliere. Ecco perché il populismo può fare da cornice coerente alle paure di cui la Lega è imprenditrice al Nord, rassicurando nella delega carismatica al leader lo spaesamento del Paese minuto, e il suo spavento popolare per ciò che non riesce a dominare.

Così, l'Italia del voto sembra più alla ricerca di rassicurazione che di cambiamento. Ecco perché ha sottovalutato la portata dell'operazione veltroniana di rottura con la sinistra radicale, una scelta che ha dato identità e credibilità al riformismo del Partito Democratico, posizionandolo nell'area della sinistra di governo europea, e che ha ristrutturato in una sola mossa l'intero quadro politico e parlamentare. Ma la novità del Pd non è passata, anzi si è fermata e di fronte ai gravi problemi della parte più debole del Paese è sembrata "politicista". Eppure la semplificazione del gioco politico, con la riduzione drastica del numero dei partiti è in realtà la prima vera riforma della nuova legislatura, e corrisponde a un sentimento diffuso dei cittadini.

Il risultato è un sistema incentrato su due grandi partiti che si contendono la guida del governo, che replicano nel nuovo secolo la coppia destra-sinistra secondo una nuova declinazione, ma restano alternativi. La vera sorpresa, nella scomparsa dal Parlamento di tutte le forze politiche sopravvissute al crollo della Prima Repubblica, è la sconfitta senza appello della sinistra radicale guidata da Bertinotti, che non entra alle Camere: probabilmente perché i cittadini ritengono i partiti dell'Arcobaleno responsabili del gioco di veti, attacchi, critiche e riserve che ha paralizzato e affogato nel dissenso il governo Prodi, e anche perché i militanti e i simpatizzanti non hanno creduto che l'accrocco della lista fosse davvero l'embrione di un nuovo partito-movimento, bensì un espediente puramente elettorale.

Alcuni destini personali dei leader sembravano marciare dritti, da tempo, verso questo esito, sconnessi dalla pubblica opinione. La mancata presenza in Parlamento non solo di una tradizione, ma di una rete di valori, interessi, critiche, opposizioni presenti nel Paese e nella sua storia, indebolisce comunque il discorso pubblico italiano, atrofizza la rappresentanza, riduce il concetto stesso di sinistra. E crea, naturalmente, una responsabilità in più per il Partito Democratico, che deve re-imparare a declinare quel concetto, deve farsi carico di un'attenzione sociale e culturale più che politica, per non lasciare allo sbando e senza voce le domande più radicali del Paese.

Ciò non muta affatto l'identità del Pd, che la leadership di Veltroni ha posizionato nel luogo politico più utile a intercettare consensi dal centro e da sinistra. Quei consensi sono arrivati in misura inferiore alle attese: ma bisogna tener conto dell'abisso di impopolarità che il Pd ha dovuto colmare prima di poter incominciare a competere, un giudizio negativo sulla coalizione che ha divorato il governo Prodi nelle sue lotte intestine.
Veltroni doveva insieme - in questa prima volta - reggere quell'eredità e discostarsene, marcando il nuovo. Il risultato è la sconfitta, ma con una forza riformista del 33 per cento una quota mai raggiunta in passato (anche se bisogna ricordarsi che la sinistra così parla solo a un terzo del Paese) e un partito nuovo che ha retto il varo nella tempesta di una campagna elettorale troppo ravvicinata alla sua nascita. C'è lo strumento adatto ad una partita che il Paese non ha mai conosciuto, la sfida riformista per il cambiamento. Sarebbe un delitto se il cannibalismo tipico della sinistra si esercitasse adesso contro quello strumento e la sua leadership, ricominciando da zero un'altra volta, per procedere di fallimento in fallimento.

Il riformismo, naturalmente, chiede comportamenti conformi anche dall'opposizione, impedisce a chi ne avesse la tentazione di giocare col tanto peggio tanto meglio. D'altra parte la nettezza del successo di Berlusconi ha tolto di mezzo quel miraggio del pareggio che covavano da mesi molti che affollano la periferia della sinistra, pronti ad offrirsi da genio pontiere di un'intesa organica di governo tra Berlusconi e Veltroni. La questione è chiara, come abbiamo provato a dire prima del voto. Chi ha vinto governa.

La responsabilità, anzi il concorso di responsabilità è possibile e doveroso nell'ambito del Parlamento, alla luce del sole, dove si devono discutere con urgenza le necessarie riforme istituzionali. Su queste riforme, sulle regole, il Pd può mettere in campo e alla prova la sua cultura di governo anche dai banchi doverosi dell'opposizione.

In questa distinzione netta, che lascia alla destra il compito esclusivo di governare, ci saranno occasioni di confronto e anche di concordanza, senza scandalo alcuno, perché senza confusione. La speranza, d'altra parte, è che Berlusconi - giunto alla sua terza prova e liberato dal terrore di rendere conto alla giustizia repubblicana - possa sentire l'ambizione di governare davvero, scoprendo l'interesse generale dopo l'abuso di interessi privatissimi. Se questo accadrà, sarà un bene per il Paese, che non ha più né tempo né occasioni da perdere.

Quanto a "Repubblica", ha già fatto l'esperienza della destra, giocando la sua parte, e senza mai inseguire il ruolo di giornale di opposizione, perché non è un partito. Preferiamo semplicemente essere un giornale: con una certa idea dell'Italia, diversa da quella oggi dominante, un'idea certo di minoranza, e che tuttavia secondo noi merita di essere custodita e preservata.

(16 aprile 2008)


Le tante facce del voto
(Antonio Padellaro - L'Unità)


È andata male perché Berlusconi ritorna a governare l’Italia. È andata male perché il Pd non è riuscito a vincere. Ma è andata bene perché il partito di Walter Veltroni esce da queste difficili elezioni come l’unico grande e, speriamo, compatto argine al potere della destra. Una forza del 34 per cento che in pochi mesi ha messo solide radici e che si candida a guidare il Paese in un futuro probabilmente non lontano, come spiegheremo tra un momento.

Ma i risultati del terremoto del 14 aprile ci dicono altro ancora. Che si è di fatto instaurato in Italia un sistema bipolare che rappresenta più dell’ottanta per cento degli elettori. Che a pagare l’amarissimo conto di questa chiamiamola semplificazione del sistema politico è stata soprattutto la Sinistra l’Arcobaleno che non avrà più alcuna rappresentanza in parlamento. Un evento, nella sua drammaticità, storico.

Il terzo ritorno di Berlusconi a palazzo Chigi ci spaventa per una serie infinita di motivi che proveremo a sintetizzare. Perché il vecchio-nuovo premier sarà scortato e controllato dall’esercito leghista che farà pesare ogni giorno sul tavolo delle decisioni la ricca messe di voti rastrellata in tutto il nord-est. Un successo addirittura travolgente in Lombardia e nel Veneto, accompagnato da uno sconfinamento davvero inatteso in Emilia-Romagna.

E infatti la guardia padana per bocca dei soliti Calderoli e Castelli ha subito annunciato un giro di vite sugli immigrati come primo punto di un programma ispirato come sempre alla xenofobia e all’esclusione. Predicatori della disunità nazionale i seguaci di Bossi hanno già trovato una degna sponda nella lega siciliana di Lombardo, l’autonomista eletto alla guida della Regione che propugna forme più o meno mascherate di separatismo. Chi si opporrà nel Pdl ai Bossi e ai Lombardo uniti nella lotta per sfasciare l’Italia? Non certo il povero Gianfranco Fini, un dì leader patriottico di An e oggi pallida comparsa del capo.

Quanto resisterà il cartello elettorale del Pdl alle spallate secessioniste del Carroccio? Pensiamo non a lungo anche perché al Senato i numeri della maggioranza non sono tali da garantire al governo sonni tranquilli. E non certo per cinque lunghi anni.

Il ritorno di Berlusconi ispira altre considerazioni, anche autocritiche. Possibile che dopo un quindicennio non riusciamo a liberarci di un personaggio che nel resto del mondo ispira incredulità e sarcasmo? E il centrosinistra, nelle sue varie forme, non ha qualcosa da rimproverarsi se il pericoloso miliardario e la sua minacciosa corte possono tornare a celebrarsi nei vari Porta a Porta come i salvatori della patria invocati dal popolo?

Nella partita politica che si apre tocca quindi al Partito Democratico giocarsi al meglio le sue carte. Diciamo subito che in queste ore la delusione è forte. Sapevamo tutti che si trattava di recuperare uno svantaggio notevole. Ma eravamo lo stesso convinti che il pullman di Veltroni, alla fine, avrebbe fatto il miracolo di riunificare il paese sotto le bandiere del Pd. Non è stato così forse perché i miracoli non appartengono a questa politica. O perché c’era ancora un tratto di strada da fare.

Comunque adesso che il Pd c’è pensiamo debba prepararsi ad affrontare una battaglia in tre mosse. Opposizione intransigente al governo Berlusconi. Dialogo sulle riforme, a cominciare da quella elettorale, solo se l’apertura di Berlusconi risulterà sincera. Rafforzamento del proprio blocco sociale guardando proprio a quella sinistra disintegrata dal voto o meglio dal non voto di ieri. Pensiamo che la litania dei risentimenti non giovi a nessuno. L’improvvisata alleanza tra Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani paga probabilmente l’appoggio dato al governo Prodi e a quella politica dei sacrifici molto mal digerita dai ceti più deboli. Che adesso abbandonano il progetto bertinottiano per rifugiarsi probabilmente nell’astensionismo. Ma quel mondo di sinistra esiste ancora e il Pd deve tenerne conto. Sui modi migliori per dare ad esso una nuova rappresentanza ci sarà sicuramente tempo per riflettere.

postato da pd.montagnola

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domenica 13 aprile 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO




Oggi possiamo
cambiare il Paese
(La Repubblica - Eugenio Scalfari)


SOLE e nuvole si alternano nei cieli d'Italia in questi giorni di un aprile che trattiene ancora una coda d'inverno ma preannuncia col verde dei prati e il profumo dei fiori la più dolce stagione dell'anno. Così ci auguriamo che sia anche per la società italiana, appesantita dai tanti fardelli del passato ma desiderosa di riprendere slancio e di lavorare per un futuro meno avaro di speranze e di risultati.

Vedo che la preoccupazione maggiore di molti osservatori delle vicende politiche, giunti alla scadenza della campagna elettorale, si appunta sul dopo elezioni. Quale che sia l'esito, vinca l'uno o l'altro dei due principali competitori, si teme che dalle urne non esca una netta vittoria e di conseguenza un governo più affannato a durare che capace di affrontare i problemi di fondo che incombono sull'Italia, sull'Europa e sul mondo intero.

Si ripropone a questo punto un tema con il quale siamo alle prese da quindici anni, cioè dall'irruzione di Silvio Berlusconi nella politica: quello della sua legittimità, quello dell'anomalia da lui introdotta nella democrazia italiana e della sua demonizzazione da parte di quella metà del Paese che non si riconosce in lui e lo considera a tutti gli effetti il nemico pubblico numero uno.

Questo diffuso sentimento di delegittimazione che provoca inevitabilmente un'analoga reazione, condizionerà la fase politica successiva al voto? Renderà ancora più arduo governare? Spingerà il vincitore a esercitare vendette e discriminazioni contro i perdenti? Trasformerà l'autorevolezza in autoritarismo seguendo uno schema purtroppo frequente nella nostra storia?

La maggior parte degli osservatori indipendenti riconosce a Walter Veltroni d'aver condotto una campagna elettorale misurata e responsabile, senza toni di rissa, senza attacchi scomposti all'avversario, innovativa ed equilibrata sugli impegni assunti con gli elettori. Il timore che si fa strada in queste ore di pausa e di attesa, anche di fronte alle frequenti incontinenze del leader di centrodestra, è che questo clima possa radicalmente cambiare.

L'esperienza dei due anni passati, durante i quali l'opposizione di centrodestra non ha fatto altro che puntare sulla "spallata" per sgominare l'esile maggioranza di Prodi al Senato pesa giustamente nel ricordo di quanti seguono con attenzione le vicende della politica. Non potendo chiedere a Berlusconi di correggere la sua natura, lo chiedono a Veltroni: quale che sarà la sua posizione post-elettorale, spetterebbe a lui e sopportare con inesauribile pazienza gli spiriti animali dell'avversario.

Doppio gravame per Veltroni e per quella metà del paese che non si riconosce in Berlusconi: blandirlo in caso di vittoria dei democratici, sopportarlo se fosse lui a prevalere di poco senza imitare quanto lui stesso fece. Chiedere che i democratici ed il loro leader si assumano questa duplice responsabilità significa considerarli come la parte politica più responsabile. Per certi aspetti suona come un titolo di merito, per altri somiglia ad una "mission impossible": fare da punching ball non piace a nessuno e non sta scritto in nessun luogo che sia sempre e comunque utile al Paese.

In realtà - chi lo conosce bene lo sa - non è un fascista e neppure un dittatore nel senso militaresco del termine. Non è spietato. Non è xenofobo. Non è razzista. Berlusconi è un pubblicitario. Un venditore. Venderebbe qualunque cosa. Sia detto senza offesa per i pubblicitari di professione: lui è pubblicitario nell'anima, venditore nell'anima.

Quando vende patacche (e gli accade spesso) si convince rapidamente che la sua patacca vale oro zecchino. Perciò è bugiardo con la ferma convinzione di dire sempre la verità. Come tutti i venditori bugiardi è un imbonitore. Come tutti gli imbonitori è un demagogo. Non ha il senso della misura. Strafà. Non rispetta nessuna regola perché le regole le fa solo lui. Guardate l'ultimo atto della sua campagna elettorale, venerdì sera. Pochi minuti alla mezzanotte. Matrix, cioè casa sua, Canale 5. Conduttore Enrico Mentana.

Prima di lui aveva parlato Veltroni per cinquanta minuti. Lui era stato brevemente intervistato da Mimun per il telegiornale delle 20. Poi si era ritirato nello studio del direttore e di lì aveva ascoltato il "récit" del suo avversario. Infine è arrivato il suo turno e ha impiegato gran parte del tempo a ribattere gli argomenti di chi l'aveva preceduto con molta enfasi e parecchi insulti.

Tanto Veltroni era stato pacato e raziocinante tanto lui ha mostrato i denti e la rabbia, ma fin qui niente di speciale, il bello, anzi il bruttissimo, è venuto dopo quando il suo show era terminato, Mentana aveva dichiarato chiusa la trasmissione e aveva cominciato ad illustrare il modo di votare correttamente con davanti un tabellone che riportava un facsimile di scheda elettorale.

Lui non se n'era andato dallo studio, era sempre lì ma fuoricampo. A un certo punto, nello stupore generale, è rientrato in campo, si è sostituito a Mentana ed ha indicato lui il modo di mettere la crocetta sulle schede. Prima che accadesse il peggio, che in realtà stava già accadendo, Mentana ha chiamato la pubblicità e l'indebito spettacolo è stato oscurato. Quest'episodio rivela meglio di qualunque discorso la natura del personaggio e dei suoi spiriti animali.

L'Economist ha scritto che Berlusconi è inadatto a governare una nazione. "Unfit". Non è un insulto e neppure una demonizzazione. Semplicemente una constatazione. "Unfit". Inadatto. Metà degli italiani, da Casini fino a Bertinotti passando per i democratici, la pensano esattamente allo stesso modo e così pure i governi e il Parlamento europei.
Si dirà: contano i voti che usciranno dalle urne. Giustissimo, contano i voti e solo i voti. Resta un Paese diviso in due non soltanto per differenze politiche ma anche da un giudizio sulla persona: "unfit", inadatto, imbonitore, demagogo, venditore di patacche. Metà del Paese pensa questo, ne ha conferma tutti i giorni e sarà molto difficile che cambi idea.

Ci sono infinite altre prove della sua "unfitness" oltre alla miseranda scenetta a Matrix. La più rivoltante è la proclamazione di Mangano, il finto stalliere di Arcore ad eroe. Non si capisce quale tipo di eroismo sia stato il suo, ma sappiamo che è stato condannato a tre ergastoli per associazione mafiosa.

Sappiamo anche che Dell'Utri è in qualche modo connesso a un tentativo di taroccare le schede degli italiani all'estero: un mafioso latitante in Argentina gli ha telefonato proponendogli quell'imbroglio ma Dell'Utri ha risposto di non esser lui la persona adatta e l'ha indirizzato al responsabile del suo partito per gli elettori all'estero, senza però informare di quel contatto né la magistratura né il ministero dell'Interno. Mentre brogli veri si preparano, il leader già ora, in via preventiva, manda in scena una campagna contro i brogli supposti per precostituirsi un alibi in caso di sconfitta elettorale come già fece per tutti i due anni del governo Prodi. "Unfit".

Sostiene di aver lasciato nel 2006 i conti pubblici in perfetto ordine. La controprova sta nelle cifre a causa delle quali siamo stati per due anni messi sotto processo dall'Europa e ne siamo usciti solo dopo le leggi finanziarie di Paoda-Schioppa.

Sostiene anche di aver realizzato il suo "contratto con gli italiani" per l'85 per cento durante gli anni del suo governo, ma in realtà non ha realizzato se non il 15 perché nessuna delle proposte è diventata legge pur disponendo di 100 voti di maggioranza alla Camera e 50 al Senato. Quei voti servivano ad approvare le leggi a suo personale beneficio, dall'abolizione del falso in bilancio alle norme giudiziarie che accorciavano i tempi di prescrizione dei processi, alla Gasparri che ha mantenuto in vita Retequattro contro le reiterate sentenze della Corte.

"Unfit". Si potrebbe e forse si dovrebbe continuare, ma a che pro? L'altro giorno ho ricevuto una lettera da un lettore che mi rimprovera perché - dice lui - ho un pregiudizio contro. Io non ho pregiudizi contro e neppure a favore. Esamino la realtà e conosco le persone. Lui è inadatto.

Venderebbe la Cupola di San Pietro al primo che ci creda. Purtroppo molti ci credono. Forse gli inadatti sono adatti ad una parte di questo Paese il quale, non a caso, è in declino. L'altro ieri l'Ocse ha dimostrato che il nostro declino ha toccato il culmine nel quinquennio 2001-2006. È proprio il quinquennio del suo governo. Sarà magari un caso ma è un dato di fatto e coi dati di fatto non si può polemizzare.

Il pareggio elettorale non ci sarà, o vince uno o vince l'altro. Ma al Senato questa regola vale di meno. Può accadere che uno vinca con una maggioranza relativa e non assoluta. Oppure con una maggioranza di pochissimi voti come fu per Prodi. Tuttavia chi vince anche per un solo voto dovrà governare perché questa è la regola in democrazia.

Veltroni ha proposto un patto di "lealtà repubblicana" che significa un'opposizione che controlla, propone alternative, ma non paralizza l'azione del governo votato dalla maggioranza. Berlusconi ha rifiutato questa proposta.

Questo è lo stato dei fatti. Voglio ancora una volta ricordare la frase di Petrolini a chi l'aveva fischiato.
Disse: "Io nun ce l'ho cò te ma cò quelli che te stanno vicino e nun t'hanno buttato de sotto". È la terza volta che la cito perché descrive splendidamente la situazione e mi sembra una buona chiusura nel giorno in cui andiamo a votare.

Si è creato in queste ultime ore un sommovimento nella pubblica opinione che ricorda quanto avvenne nel 1991 con il referendum di Mario Segni: un voto corale che fece saltare la Prima Repubblica ormai logora e dominata da una logora casta. Questo stesso sentimento può prevalere domani. Domani si può voltar pagina e aprire un ciclo nuovo che rimetta la politica al livello di un'Italia desiderosa di cambiare. Non sprecate questa grande occasione. Siate popolo sovrano perché è questo il vostro giorno.

postato da pd.montagnola

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venerdì 11 aprile 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO




"Berlusconi inadatto a democrazia
Ecco perché sceglierò il Pd"
(di NANNI MORETTI - La Repubblica e MicroMega)



Non mi piace l'espressione e il concetto di "voto utile", ma personalmente non ho mai avuto dubbi sul mio voto: il Partito democratico è la novità della politica italiana e forse l'ultima opportunità per non regalare definitivamente il paese all'estremismo di Berlusconi e Bossi. Purtroppo, tra gli elettori di sinistra e centrosinistra, persiste una tentazione irresponsabile ad astenersi dal voto.

Gli incerti sono tali per delusione, stanchezza, assuefazione. La delusione nei confronti del governo di centrosinistra è in parte condivisibile, ma non può far dimenticare il vero e proprio abisso politico, culturale ed etico che c'è tra il centrosinistra e la destra italiana. La stanchezza si esprime con l'infastidito "Ma come è possibile, dobbiamo ancora occuparci di Berlusconi?!". Sì, il protagonista negativo purtroppo è ancora lui e, cosa impossibile da immaginare nel '94, si tratta di un Berlusconi addirittura peggiore: per aggressività, assenza di senso dello Stato e disprezzo delle istituzioni. Assuefazione: siamo arrivati al punto che ormai quasi tutti consideriamo normali cose che in democrazia non lo sono per niente, e che infatti non sono mai accadute in altri paesi: per esempio, il monopolio televisivo privato in mano a una sola persona, che, incredibilmente, si candida per la quinta volta in quindici anni a governare con le sue improvvisazioni il paese. Come non sono normali le aggressioni verbali di Bossi e Berlusconi nei confronti degli avversari politici, delle istituzioni, della magistratura, del presidente della Repubblica. Parlare di "imbracciare le armi", non può essere considerata un'innocua battuta (anzi, Berlusconi ha detto: "E' una metafora", ma mi sembra che non gli sia ben chiaro il concetto).

Molto pericolosa e inquinante è l'ossessione di Berlusconi verso i brogli elettorali. Tutti hanno dimenticato che purtroppo è una sua costante, infatti già nel '96 disse che Prodi aveva vinto grazie ai brogli. L'ha ripetuto quasi in tempo reale nell'aprile di due anni fa, convincendo milioni di elettori di essere stati derubati. Questo è un modo inaccettabile per delegittimare il voto e quindi minare le basi della democrazia. Si è poi visto, quando molti voti sono stati ricontati, che di poco era stato penalizzato il centrosinistra. In Berlusconi c'è una estraneità direi "naturale" alle regole e al rispetto dei risultati che non gli sono favorevoli.

Purtroppo l'opinione pubblica in Italia non esiste. Basti fare il confronto con quello che scrivono di Berlusconi giornali stranieri non certo di sinistra: esprimono incredulità per le sue continue affermazioni anti-istituzionali, severità e durezza per i suoi continui attacchi alle norme elementari della convivenza democratica, e una autentica preoccupazione verso un suo possibile ritorno al governo. Oltretutto, per la quinta volta, c'è un candidato che parte avvantaggiato nella competizione elettorale, perché ancora controlla tre reti televisive e giornali e radio. Io sono una persona competitiva, un appassionato di gare, mi piace farle e vederle, ma le nostre elezioni assomigliano alla finale dei cento metri, la gara più bella delle Olimpiadi, con sette concorrenti allineati e l'ottavo che arriva col suo blocchetto di partenza e si sistema 15 metri più avanti. Una gara falsata... Trovo perciò insensato il gran parlare che si fa di Berlusconi come personaggio "carismatico" e "grande comunicatore". Secondo me, oggi, non è né l'uno né l'altro.

A proposito di Veltroni e Berlusconi, non capisco come ci sia qualcuno che possa sostenere che i due uomini politici e i loro programmi si assomiglino o addirittura siano uguali... Tra i due politici le differenze sono enormi, Berlusconi è un disco sempre più incantato e sempre più finto. Lo si è visto anche nel suo rifiuto di confrontarsi in tv con Veltroni. Una vera e propria fuga. Sa che perderebbe voti. Purtroppo, questo suo rifiuto qui da noi non scandalizza, viene considerato normale: "E' in vantaggio, è giusto che non faccia il duello con Veltroni". In altri paesi l'opinione pubblica, che qui non esiste, ti farebbe pagare politicamente ed elettoralmente un comportamento del genere.

Il centrosinistra, per non diventare come la destra, giustamente evita di usare, con segno opposto, la stessa aggressività... Per non spaventare i moderati, il centrosinistra evita di ricordare le condanne, per mafia e corruzione della magistratura, di importanti esponenti di destra: in questo modo fa due passi indietro, ma la destra ne fa otto avanti. Il centrosinistra considera molte delle argomentazioni a suo favore dei possibili boomerang, mentre la destra aggredisce e insulta. E' un problema di metodo che però è anche di sostanza: va bene non diventare come il tuo avversario, ma bisogna solamente subire?...

Non ho mai usato l'espressione "regime", perché quest'espressione generica può significare tutto e niente. E' una rassicurante coperta di Linus, è un plaid linguistico che uno usa per lamentarsi e poi restare fermo. Preferirei essere più preciso, forse più duro: la nostra è una democrazia in parte svuotata dal quasi monopolio televisivo di Berlusconi.

L'irresponsabilità è una caratteristica molto italiana. Bossi, Berlusconi, Dell'Utri e tanti altri nella destra, si permettono delle affermazioni gravissime. Poi si rettifica, in parte si smentisce e tutto finisce lì. Vengono considerate, con incredibile indulgenza, "dichiarazioni in libertà", "folklore", "esagerazioni pittoresche". Tanti hanno considerato troppo cupo e pessimista il finale del "Caimano", ma le frasi di Berlusconi sull'esame di sanità mentale da fare ai magistrati si spingono molto oltre. Eppure non succede nulla (ma i giornalisti stranieri, anche quelli moderati, rimangono allibiti).

Il direttore di un telegiornale di Mediaset da anni sbeffeggia, ridicolizza, schernisce politici e giornalisti di sinistra e centrosinistra, e gli si risponde con corsivi ironici, invitandolo alle trasmissioni comiche, considerandolo addirittura più onesto di altri perché più schierato. Si ride. Ma non c'è niente da ridere. Milioni di persone vedono la televisione, che è uno strumento molto più prepotente dei giornali, e nei confronti del quale abbiamo meno difese...

Berlusconi si è lanciato ripetutamente in affermazioni molto gravi contro Napolitano, trattandolo come "uno dei loro". Dopo l'ultima di queste incredibili uscite contro il presidente della Repubblica, alcuni giornali hanno titolato: "Lite Berlusconi-Veltroni sul Quirinale". Ma qui non c'è nessuna lite, non c'è nessun derby, c'è solo un uomo inadatto a governare, che non ha ancora capito cos'è lo Stato, le istituzioni, la democrazia liberale.

Da molti anni, politici democristiani vengono accusati da Berlusconi di essere "comunisti" (dal '94 in Italia questo è ormai un insulto, a differenza di quando esisteva il Pci). Mentre molti fascisti, che restano fascisti e purtroppo non percepirebbero questo come un insulto, hanno avuto ruoli importanti nello schieramento di Berlusconi. Che, è bene ricordarlo, da capo del governo non ha mai partecipato alla festa del 25 Aprile, la festa di Liberazione.

Questo testo è la sintesi di un intervento di Nanni Moretti tratto dal sito www.micromega.net, online da questa mattina.

postato da pd.montagnola

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mercoledì 9 aprile 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

Il richiamo della foresta

(La Stampa - Riccardo Barenghi)

Più dell’amor poté il digiuno, ovvero più del fair play poté la vittoria. E così, dopo un mese di campagna elettorale tutto sommato educata, civile, addirittura noiosa per quanto fossero simili i programmi e ripetitivi i discorsi, siamo tornati all’antico. L’insulto, lo scontro ideologico, la rissa. La minaccia di prendere i fucili fatta da Bossi. L’odio per i comunisti (che manco esistono più) rievocato da Berlusconi. Il disprezzo per i magistrati che dovrebbero sottoporsi periodicamente a test di attitudine mentale rilanciato sempre dal Cavaliere. L’occhiolino strizzato ai mafiosi da parte di Marcello Dell’Utri, anche loro votano e fanno votare. E meno male che Veltroni aveva appena scritto una lettera al suo avversario per invitarlo a essere leale con la Repubblica, insomma a garantire un corretto funzionamento delle istituzioni e dei rapporti tra di esse. Un appello caduto nel vuoto, anzi peggio: «Irricevibile», è stata la secca risposta. In un attimo siamo ripiombati nel passato, niente più promesse di riforme istituzionali fatte insieme, dei comunisti non ci si può fidare.

Nessuna possibilità di avere un rapporto corretto con la magistratura, i pubblici ministeri sono malati mentali che devono essere curati. E così, quando Berlusconi sarà al governo, se lo sarà, le Procure di tutta Italia sanno che devono stare attente: se ti muovi ti fulmino. (D’altra parte pure i dirigenti del centrosinistra in questi ultimi anni non è che abbiano avuto rapporti idilliaci con la magistratura, dimostrando anche loro una certa insofferenza ogni volta che finivano sotto tiro).

Per non parlare dell’amico e fedele consigliere Dell’Utri che, mentre promette di riscrivere la storia della Resistenza, addirittura arriva a definire il famigerato stalliere mafioso di Arcore un eroe. L’eroe Mangano. Lo dice così, a freddo, senza alcuna ragione plausibile. Lo dice evidentemente perché in Sicilia (e non solo lì) quella parte del Paese denominata mafia ancora conta nonostante le sconfitte subite. Conta, produce consenso ed è capace di riversare quel consenso verso tizio o caio. In questo caso è lampante verso chi.

Non c’è niente da fare, nonostante i vari tentativi che in questi anni sono stati fatti, prima da D’Alema con la sua Bicamerale e poi da Veltroni con la sua proposta di riformare il sistema assieme a Berlusconi, e pure con la sua impostazione di una campagna elettorale per qualcosa e non contro qualcuno, niente da fare. Il Paese normale non c’è, resta un sogno. E non c’è perché il Cavaliere, che pure era sembrato diverso da se stesso, che pure aveva aperto il dialogo con i suoi avversari, che pure aveva promesso una nuova stagione politica fatta di rapporti decenti con la futura, eventuale opposizione, di processi costituenti, addirittura di possibili larghe intese, non resiste al richiamo della foresta. Quando vede la meta a pochi metri non può fare a meno di scatenare i suoi spiriti animali. Il suo obiettivo è vincere a qualsiasi costo, e sa che ritirando fuori il vecchio armamentario sui comunisti, sui giudici, sui mafiosi che in fin dei conti non sono poi così male (non fu il suo ministro Lunardi a dire che bisogna convivere con la mafia?), il suo elettorato si eccita. Si mobilita. Magari perché si spaventa appunto dei «comunisti» che gli aumentano le tasse, dei pubblici ministeri che indagano dove invece bisogna chiudere un occhio o magari tutti e due. E va a votare. Per lui.

Il quale lui, cioè Berlusconi, è anche capace di mettere insieme nella stessa giornata, nello stesso comizio, nella stessa frase, un’abnormità come quella sui magistrati malati di mente con una fesseria come quella sulle donne di destra più belle di quelle di sinistra. I comunisti con la mozzarella, la mafia con le barzellette, l’attacco politico più violento e minaccioso con l’ultima gag da varietà. Questo è l’uomo che tra meno di una settimana potrebbe essere il nuovo capo del governo. E semmai riuscisse a esserlo, governerà così, seguendo il suo istinto primario: dice che Bossi sta male e un’ora dopo smentisce di averlo detto, invita gli imprenditori a evadere le tasse e un’ora dopo nega di aver mai pronunciato quella frase che centinaia di persone hanno sentito. Spiega che Veltroni è una persona seria e affidabile e un attimo dopo rieccotelo un comunista che divora i bambini.

postato da pd.montagnola

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