Circolo della Montagnola





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venerdì 30 maggio 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

Deriva populista
(Piero Ignazi - L'Espresso)


Gli osservatori stranieri temono che l'Italia sia il laboratorio di una nuova forma di regime politico. Ci sarà un motivo per cui quasi tutta la stampa internazionale, ivi compresa quella moderata, dal 'Wall Street Journal' al 'Financial Times', ha accolto la vittoria di Silvio Berlusconi con una sfilza di commenti caustici al limite del dileggio? Cosa può muovere un esercito di corrispondenti e analisti a una tale 'faziosità'; come possono non vedere il nitore morale, la storia cristallina e l'acume intellettuale della coalizione vincente e del suo leader maximo? Cospirazione dell'internazionale liberal, incompetenza e crassa ignoranza dei fatti italiani, invidia per i successi nello sport come negli affari del nostro primo ministro?
Ammettiamo per ipotesi che gli osservatori stranieri abbiano ragione a esprimere sorpresa e sconcerto nel vedere confermato alla carica di primo ministro il proprietario di un impero mediatico, ed elevati a cariche ministeriali rappresentanti di un partito xenofobo quale la Lega. Su che cosa si fonda la loro sorpresa e il loro sconcerto? Esaminandoli a fondo si rintracciano tre filoni.
Il primo fornisce un giudizio drastico sull'azione del precedente governo Berlusconi in campo economico: crescita zero, aumento del debito pubblico, sforamento del rapporto deficit/Pil, azzeramento dell'avanzo primario. Con risultati così deludenti non si capisce cosa possa far presagire un'efficiente gestione dell'economia da parte della stessa équipe di governo.
Il secondo riguarda - ohibò, ancora - il conflitto di interessi. Da noi è visto come una ossessione da monomaniaci, da fissati, da antiberlusconiani viscerali: suvvia, perché parlarne ancora? Agli italiani interessa ben altro. E poi, se Vespa, Mentana, Floris e tutti gli altri teatrini serali della politica non ne discutono, vuol proprio dire che il tema è out: fuori moda, fuori tempo e fuori luogo. Invece chiunque parli con osservatori stranieri - accademici, giornalisti, imprenditori - si sente sempre rivolgere la stessa domanda da 15 anni a questa parte: come è possibile questo gigantesco conflitto di interessi? Ciò significa che negli altri paesi la questione non è 'out', ma rimane un punto di riferimento per definire la qualità della democrazia di un sistema politico. Anche se la nostra destra si erge burbanzosa a difendere dalle critiche l'onore nazionale, con ridicole pose neo-crispine per non dire peggio, la questione è dirimente agli occhi della community politico-culturale internazionale.
Perché invece da noi è così irrilevante? Oltre alla penosa incapacità della sinistra di imporlo come tema politico centrale, messa all'angolo dalla potenza di fuoco dell'impero mediatico del Cavaliere non appena si tocca l'argomento, c'è forse una ragione più profonda, che si collega al terzo tema ricorrente delle critiche della stampa internazionale: il timore che l'Italia sia il laboratorio politico di una nuova forma di regime politico, di tipo populista.
La democrazia populista è una insidiosa deformazione della democrazia liberale. Nella democrazia populista il leader 'interpreta' il volere della masse. La sua legittimazione viene non tanto dal risultato elettorale, quanto dal suo rapporto esclusivo e diretto con i sentimenti profondi del popolo, che solo il leader interpreta e soddisfa. Quindi, chi si oppone diventa oggettivamente un nemico del popolo. La democrazia populista 'necessita' comunque di un nemico, indefinito e nascosto o palese e individuabile, al quale attribuire le difficoltà nel cammino dell'azione del governo. Organi dello Stato quali la magistratura, la Corte costituzionale o la presidenza della Repubblica, media indipendenti, attori sociali non consenzienti, interessi economici e persino organizzazioni internazionali, possono tutti rientrare nel novero dei bersagli da stigmatizzare. La logica della democrazia costituzionale, così come si è (faticosamente) affermata in Occidente dopo la sua vittoria sui fascismi, è invece tutta diversa: eleva a valore supremo la divisione, il rispetto e il controllo reciproco dei poteri, e il pluralismo degli interessi e delle opinioni, garantito da separazioni di competenze e ambiti.
Ora si può ben immaginare come sia stato guardato un paese dove si è consumata, nel caso Alitalia, una gigantesca commistione di poteri, con l'uomo più ricco della nazione, candidato al governo, che è intervenuto sulle trattative della vendita della compagnia di bandiera, facendo fuoco e fiamme contro un acquirente (straniero, si badi bene), col risultato di far colare a picco la società in attesa di essere raccattata con quattro soldi da imprenditori amici, grati per il gentile dono.
In linea di principio, una opposizione incisiva e una informazione libera e critica costituiscono anticorpi naturali alla deriva populista. Sulla prima vedremo se si riprenderà dalla sconfitta ed eviterà la trappola di melassa preparata dal Cavaliere; sulla seconda è difficile fare affidamento: il coro assordante di peana che laudano il governo, nonché le trombette che accompagnano ogni sua mossa, non sono di buon auspicio per il futuro. Il complesso mediatico-economico, versione post-moderna del vecchio complesso economico-militare evocato a suo tempo da John Galbraith, inquieta per la sua capacità di condizionamento della politica. E non solo in Italia.

(30 maggio 2008)

Se Silvio canta la ninna nanna
(Giorgio Bocca - L'Espresso)


Berlusconi è cambiato come cambiano i vincitori e come cambia la loro generosità strumentale. Addormentare meglio che uccidere. Drogare dolcemente meglio che seviziare.
Di fascisti in Italia non ce ne sono più. Neppure quelli che fanno il saluto romano, che sventolano bandiere con le svastiche o le croci celtiche. Il presidente della Camera, tempio della democrazia, Gianfranco Fini, ha detto che per lui il 25 aprile partigiano e il 1 maggio rosso sono due giorni fondamentali per la Repubblica. E Fini è un uomo d'onore.
Anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, festeggiato in Campidoglio dai taxisti in camicia nera, è un vero democratico, che rende onore ai martiri delle Fosse Ardeatine.
E Silvio Berlusconi? Beh, lui è il più cambiato di tutti, lo dice anche Adriano Celentano, la "coscienza della nazione", lo dice anche il governatore della Campania, Antonio Bassolino se non ci aiuta lui - dice - Napoli affonda.
I vincitori, com'è noto, sono persone fortunate, a cui il successo moltiplica le virtù e le seduzioni. Solo un regista matto può pensare che Silvio sia sempre un Caimano, per Celentano e per gli uomini di buona volontà è un altro, irriconoscibile, modestissimo nelle pretese, generoso con gli avversari. Davvero?
Noi, sui fascisti non più fascisti e sul Caimano diventato agnello, conserviamo gli antichi dubbi. In che cosa è cambiato Berlusconi? Nella capacità di sedurre nemici e concorrenti? Il primo aneddoto che mi raccontò, quando lo conobbi, fu che durante un viaggio in ferrovia da Roma a Milano, riconobbe nel signore seduto davanti a lui il politico più ostile a concedergli le licenze per le sue televisioni: "Ebbene - mi disse - quando arrivammo a Milano, era d'accordo con me su tutto".
Due settimane fa Eugenio Scalfari ha cercato di spiegarlo a 'Che tempo che fa': "Berlusconi è uno che mente in continuazione, senza complessi e pentimenti. Solo che alle sue menzogne crede profondamente, con una tenacia e una determinazione incredibili".
Quando lavorai per qualche tempo nelle televisioni di Berlusconi, e lo difesi nei giorni in cui le avevano oscurate, Eugenio disse bonariamente: "Giorgio, sei innamorato di Berlusconi". Per fortuna gli amori passano. Oggi dovrebbe essere facile capire che Berlusconi è cambiato come cambiano i vincitori e come cambia la loro generosità strumentale: oggi è meglio governare cooptando o, se preferite, corrompendo, piuttosto che uccidendo o imprigionando.
I consumi di massa non permettono più le semplificazioni della ferocia, gli internati e i fucilati non comprano automobili o telefonini, le polizie costano, le carceri sono insufficienti. Meglio addormentare che uccidere. Meglio drogare dolcemente che seviziare. Ma la tentazione autoritaria resta, ed è meno resistibile.
Questo fascismo, a parole non più fascista, questa democrazia universale, dove è sparita la lotta di classe, e dove il limbo dei call center permette a tutti di immaginarsi ricchi e sazi, i problemi li lascia irrisolti. Con il fascismo buono, democratico, liberale, l'antifascismo non ha più senso, è una retorica fastidiosa, che Berlusconi e i suoi sorvolano, cambiando registro. A qualcuno pare che basti.
Ma guardiamoci attorno, guardiamo cos'è quest'Italia pacificata dai benpensanti, e vedremo che questa pacificazione è in realtà l'accettazione del peggio. Berlusconi fa il suo mestiere di uomo di potere, ha capito che la sola politica che possa aprirgli le porte del Quirinale è l'accordo di comodo. Ma vien voglia di ricordare il poeta: "Oh non per questo dal fatal di Quarto...".

(30 maggio 2008)

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mercoledì 14 maggio 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

Giustizia fai da te
(Luca Ricolfi- La Stampa)


Polizia costretta a intervenire a Napoli per evitare il linciaggio di una rom sospettata di aver tentato di rapire una bambina. Baracche (fortunatamente vuote) di un campo rom incendiate nel quartiere Ponticelli di Napoli. Molotov contro un altro campo nomadi a Novara. Ronde di ogni specie e colore che sorgono un po’ dappertutto per proteggere i cittadini da ladri e malviventi. È bastato che il centro-destra vincesse le elezioni, e il clima del Paese è cambiato quasi all’istante. Anziché aspettare il varo dei provvedimenti del governo, molti sembrano aver deciso di fare da sé. Né si può dire che a questo spirito vagamente autoreferenziale si sottragga completamente il governo stesso, almeno a giudicare dal semplicismo di varie ricette di cui si sente parlare in questi giorni.

Non sono buone notizie, perché la giustizia «fai da te» non risolve i problemi, è pericolosa, spesso porta con sé abusi, prevaricazioni, vendette private, in breve genera altra ingiustizia. Ma proprio perché è una strada sbagliata, dobbiamo capire che cosa la alimenta. Il modo migliore per farlo, a mio parere, è leggersi Non sulle mie scale (ed. Donzelli 2001), un piccolo libro in cui Italo Fontana, psicoanalista torinese, racconta come, alla fine degli Anni 90, la vita della sua famiglia sia stata devastata da una doppia calamità: l’installarsi di decine di criminali immigrati nelle soffitte del suo condominio, e la completa sordità delle istituzioni cittadine.

Perché è utile leggere o rileggere quel testo? Perché vi si trova una spiegazione profonda di quanto sia difficile, per chi crede nella legalità, nella democrazia, nella solidarietà, nella libertà individuale, mantenere nel tempo l’animo sereno e la mente aperta, senza farsi prendere dalle peggiori pulsioni. Il cocktail micidiale, che richiede sforzi disumani per non esplodere, è fatto di tre ingredienti:
a)la scoperta che molti immigrati clandestini non sono poveretti alla ricerca di un lavoro dignitoso ma persone arroganti, prepotenti, violente;
b)la scoperta che le attività criminali e i luoghi del loro esercizio sono perfettamente noti alle autorità;
c)la scoperta che, anche di fronte alle vessazioni più drammatiche, le autorità non intervengono e non rispondono, opponendo il classico «muro di gomma».

Se ci riflettiamo un attimo, non è difficile rendersi conto che i tre ingredienti sono tutti presenti nella situazione attuale. I cittadini sono esasperati perché le attività criminali si svolgono sotto i loro occhi, perché si sa perfettamente dove si spaccia, dove si arruolano manovali in nero, dove si viene derubati, dove non si può camminare senza pericolo, ma si sa pure che - per i motivi più diversi - le istituzioni non interverranno.

Le istituzioni talora non intervengono perché le leggi non glielo consentono, e da questo punto di vista non si può che augurare al nuovo governo di riuscire a cambiare le norme che impediscono di perseguire efficacemente il crimine. Ma nella maggior parte dei casi le istituzioni non intervengono per due altri ordini di motivi, che ben poco hanno a che fare con le leggi. Il primo è l’inerzia amministrativa, ossia l’incapacità di capire che la libertà di espressione diventa una presa in giro se non c’è anche il diritto dei cittadini a ottenere risposte. Il secondo è la mancanza di risorse organizzative, fisiche, materiali: personale, uffici efficienti, banche dati, processi rapidi, carceri all’altezza di un paese civile. Il rischio, in questo momento, è che il governo si illuda che l’azione chiave sia l’inasprimento delle pene. Non è così: se c’è un risultato solido della ricerca empirica sulla devianza è che la gravità delle pene ha un effetto deterrente minimo, mentre ne ha uno molto più incisivo la probabilità di essere condannati, catturati o anche semplicemente disturbati. Ciò è tanto più vero in una situazione in cui è noto a tutti, e in primis ai criminali, che in Italia le pene sono e resteranno ancora a lungo puramente virtuali, visto che la magistratura è ingolfata di pratiche e mancano almeno 30 mila posti nelle carceri. È per questo che il nostro Paese è diventato la mecca del crimine.

Ecco perché oggi, con la gente che tende ad autorganizzarsi, la capacità delle istituzioni di «esserci» diventa la variabile fondamentale. Ma esserci come?

In attesa che i processi diventino più brevi e l’edilizia carceraria faccia il suo corso, a me pare che le uniche strade che possono dare risultati immediati siano il ripristino del controllo del territorio (non solo nelle regioni di mafia, ma anche in tante aree del Nord) e una massiccia opera di interferenza negli affari illegali della criminalità, dalla chiusura di attività al sequestro di beni alla confisca di patrimoni. Senza questa nuova visibilità dello Stato e delle istituzioni temo che il cambiamento delle leggi darà ben pochi risultati, e la «giustizia fai da te» verrà sempre più percepita come l’unica strada percorribile. Perché la «giustizia fai da te», come la mafia, prospera dove lo Stato si ritira o non fa il suo dovere. Abbiamo già un primo Stato, quello legale, e un secondo Stato, la criminalità mafiosa. Forse non è il caso di preparare le condizioni che potrebbero far sorgere il terzo Stato, quello dei cittadini esasperati.



L'egemonia del cavaliere
(Piero Ignazi - L'Espresso)



Berlusconi, estraneo alla tradizione nera, è stato lo sponsor credibile del revisionismo storico e poi dell'agenda politica neoconservatrice Silvio Berlusconi
Se si fanno bene i conti, accasando micro-partiti e listine all'una o all'altra parte, alle ultime elezioni la destra ha sfiorato la maggioranza assoluta con il 49,6 per cento. Un ottimo risultato, ma ben lontano dal rappresentare i 2/3 del paese, come ha baldanzosamente affermato Silvio Berlusconi. Infatti, grazie alla (attuale) dissociazione dell'Udc di Pier Ferdinando Casini dal fronte berlusconiano, l'opposizione è al 49,1 per cento. Ancora una volta, un paese spaccato a metà.

Le sorti della sinistra sono quindi legate alla sua capacità di fare opposizione. E in questo la destra ha molto da insegnare. Perché non c'è alcun dubbio che l'attuale vittoria sia stata costruita sia con un lavoro di lunga portata di cui oggi si vedono i primi frutti - ed altri matureranno nei prossimi anni - sia con una efficacissima strategia di attacco nella lotta politica contingente. Sorvoliamo sull'abilità nell'incalzare continuamente l'avversario di cui ha dato prova la destra, adottando ogni linguaggio anche il più sprezzante e ogni strumento anche il più disinvolto, pur di ottenere il proprio scopo (due esempi per tutti: gli insulti a Rita Levi Montalcini e le profferte al senatore Nino Randazzo); vediamo piuttosto quali sono le origini lontane del suo successo.

In una parola si fondano sulla costruzione prima e sull'affermazione poi di una cultura politica di destra. Un fatto nuovo e, se vogliamo, rivoluzionario, perché non c'è mai stata una presenza solida, cosciente di sé e articolata della cultura di destra. Un po' perché intinta nell'inchiostro nero della nostalgia e della tradizione antidemocratica di inizio Novecento, un po' perché innervata da influenze clericali pre - e anti - conciliari, un po' perché provinciale ed estranea al dibattito internazionale, fino alla metà degli anni Novanta, in Italia, non si sono mai affacciati il neoconservatorismo e la moral majority, i due capisaldi culturali della destra occidentale degli ultimi due decenni del secolo.


La Dc, in quanto perno moderato del sistema e guidata da una classe politica formatasi su valori che spaziano dal personalismo al cattolicesimo democratico, ha fatto da argine alla penetrazione del neoconservatorismo. Fiocinata a morte la Balena bianca, rimaneva non solo un vuoto politico, ma anche uno culturale. La prima operazione conseguente a quel crollo è stata la postfascistizzazione del Msi e la conseguente eufemistizzazione del ventennio. Corollario di quella operazione, il picconamento dei pilastri cultural-politici dell'antifascismo e la svalutazione della resistenza. Si pensi alla differenza tra la ricezione positiva, anche a destra, del lavoro, problematico quanto magistrale, di Carlo Pavone, 'Una guerra civile', pubblicato nel 1991, e l'onda diffamatoria sulla resistenza degli anni successivi.

Per realizzare questo passaggio era necessario però un sponsor credibile, estraneo alla tradizione nera. Silvio Berlusconi è stato l'uomo della provvidenza. Ma il suo intervento non si è limitato a una copertura del revisionismo storico. Il dominus di Forza Italia ha introdotto e legittimato tutta l'agenda politica neoconservatrice, con un crescendo progressivo di radicalizzazione. Ma le sue esternazioni - come quelle di altri leader della destra - non sono cadute nel vuoto. Si sono giovate del lavoro di copertura culturale fornito dalle elaborazioni dei vari centri studi, delle riviste e delle pubblicazioni di ogni tipo e genere - elaborazioni prontamente rilanciate dai mass media previa riformulazione per il medium di destinazione.

In tal modo si è creata una koiné comune alla destra e si sono imposti nel dibattito politico-culturale temi quali: l'esaltazione dell'individualismo sregolato, la mitizzazione dello Stato minimo, il disprezzo per il pubblico, il neonazionalismo soft, l'ostilità agli immigrati rasentando la xenofobia, l'adozione, spesso impropria, dei riferimenti religiosi uniti a un via libera a ogni intromissione della Chiesa, la riduzione dei diritti civili a optional, la glorificazione acritica dell'Occidente e del Grande Fratello d'oltre-oceano, l'euroscetticismo, l'insofferenza per i checks and balances costituzionali a fronte dell'idolatria populistica del volere del popolo (salvo quando si schiera per quasi i 2/3 contro le proposte di riforma costituzionale dei geni di Lorenzago nel referendum, presto dimenticato, di due anni fa). Tutto questo non si è costruito in un giorno: è il risultato di un impegno 'metapolitico' di anni. E ora se ne vedono i frutti.

Cosa oppone la sinistra a questa offensiva? Quali sono le sue idee forza? Con quali strumenti pensa di proporle? Lasciate ad altri la storiella dell'egemonia culturale della sinistra. È vero esattamente il contrario, e per tornare a vincere deve prendere atto della realtà e rimboccarsi le maniche.

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lunedì 12 maggio 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

Qui si è perso il territorio
(Edmondo Berselli - L'Espresso)


Non c'è solo la frattura Nord-Sud ma anche quella città-provincia. Ecco perché il Pd dovrà federalizzarsi.

A mano a mano che si approfondiscono le analisi del voto, le elezioni del 13 e 14 aprile rivelano sfumature nuove. Uno degli aspetti più interessanti è la differente prestazione del Partito democratico nelle aree metropolitane e nella provincia. Si tratta di una situazione 'americana': come i democratici negli Stati Uniti, il Pd è il partito delle città, anche nel Nord leghista. Il suo messaggio raggiunge i ceti qualificati, penetra nell'universo della popolazione a elevato livello di istruzione, mobilita settori rilevanti del lavoro dipendente qualificato e ad alto reddito.

Il che complica l'analisi. Vale a dire che non esiste soltanto una frattura sociale, politica ed economica sull'asse Nord-Sud, che prossimamente potrebbe far sentire i sui effetti nelle relazioni interne all'alleanza berlusconiana (come farà il Cavaliere a tenere insieme il federalismo fiscale nordista di Umberto Bossi e le clientele meridionali del siciliano trionfante Raffaele Lombardo?). Esiste anche una classica frattura fra città e non-città, fra assetti metropolitani e provincia. I nostri democratici, a cominciare da Walter Veltroni, riescono a farsi intendere nei centri maggiori, dove l'apertura delle classi sociali più dinamiche trova il modo di reagire agli esiti contemporanei della globalizzazione con creatività e ricerca di competitività. Invece la provincia è terreno di conquista del centrodestra; nelle regioni settentrionali ha successo il proselitismo leghista, con il lavoro davanti alle fabbriche, con i gazebo vicini alle polisportive e nei bar delle bocciofile.

Questa distinzione è inevitabilmente approssimativa, ma chiarisce almeno una delle ragioni dell'affermazione della macchina berlusconiana. Anche se in modo incerto, il Pd ha cercato di accreditarsi come un partito modernizzante, capace di intercettare la spinta di un'Italia che non accetta di restare ai margini dell'Europa
. Nello spirito del partito di Veltroni c'è l'accettazione del mercato e della concorrenza come contesti in cui si esprime il merito, cioè una forma attualizzata di perseguimento dell'eguaglianza. Ma se nella metropoli diffusa e anche nella "megalopoli padana" appena descritta da Giuseppe Berta nel suo libro 'Nord' questo messaggio è stato raccolto, c'è tutta una fascia territoriale in cui le conseguenze della globalizzazione vengono osservate con inquietudine.

Per questo nelle aree non metropolitane ha successo il modello costruito empiricamente da Silvio Berlusconi, con l'ausilio intellettuale di Giulio Tremonti. Il Pdl e la Lega si caratterizzano come il soggetto di una 'modernizzazione reazionaria', che tende a marginalizzarsi rispetto ai grandi flussi della globalizzazione, ma offre una rassicurazione ai ceti intimoriti dalla violenza del cambiamento. Forza lavoro operaia messa in crisi dalle ristrutturazioni aziendali, piccole imprese sballottate dal mercato, pensionati intimoriti dalle tendenze inflazionistiche e dal problema della sicurezza quotidiana, ceti medi insofferenti del degrado urbano, tutti trovano una risposta alla propria condizione di 'uomini spaventati' (secondo una definizione di Ilvo Diamanti).

Per certi versi, questo rende ancora più difficile il ruolo del Pd. Perché fare breccia nelle frange modernizzanti della società italiana è tutto sommato agevole. Ma per contendere il consenso alla Lega e al Pdl sul territorio occorre qualcosa che al momento il Pd non ha. Cioè una presenza quotidiana sui luoghi, nella vita delle persone, nelle realtà di incontro sociale. Le elezioni hanno mostrato che non sembra possibile né condurre una campagna tutta basata sull'idea e la struttura del partito leggero, cioè mediatico e quindi volatile, né il ritorno volontaristico al lavoro politico capillare come faceva il vecchio Pci.

Ma se oggi la politica risulta modellata, plasmata in profondità dal territorio, cioè dalla dimensione geografica e spaziale, occorre agire presto per 'territorializzare' l'iniziativa politica. Questo può essere realizzato mobilitando le risorse migliori e più efficienti, dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e chiedendo alla rete istituzionale un coordinamento, una rete nuova di competenze messe in comune. Ma forse è venuto anche il momento di pensare a un partito federalizzato, il Pd del Nord, del Centro e del Sud, con strutture innovative e leadership territoriali che affianchino e sostengano il leader centrale. Pier Luigi Bersani a Milano, Enrico Letta a Firenze, Massimo D'Alema per le regioni meridionali. Che sarebbe anche una buona idea per ridimensionare, mettendole sotto controllo, la questione settentrionale, la questione romana e la questione meridionale.
(24 aprile 2008)


Dov'è finita la sinistra?
(Lucio Caracciolo - LEspresso)



In Europa i socialisti rimangolo al governo solo in Spagna. Una situazione dovuta all'assenza dei grandi obiettivi ormai ottenuti alla fine del secolo scorso dalle socialdemocrazie europee.

Se restiamo alla superficie, constatiamo che della sinistra di governo europea non resta molto, dopo le batoste in Italia e in Gran Bretagna. Fra i grandi paesi europei, solo la Spagna è retta dai socialisti. In Germania la Spd, per quanto in crisi profonda, partecipa alla grande coalizione come azionista di minoranza. Dobbiamo dedurne che la sinistra europea ha esaurito la sua spinta propulsiva, come si sarebbe detto qualche anno fa? E che cosa ne consegue?

A scavare leggermente più a fondo, sotto l'affresco fin troppo mediatizzato delle recenti sconfitte elettorali - e fatte salve le notevoli differenze fra i diversi contesti - si scopre una trama meno univoca. Sullo sfondo, la ragione prima delle difficoltà delle sinistre, almeno di quelle riformiste: il Novecento si è chiuso sulla loro vittoria. I diritti di base dei lavoratori, la democrazia, lo Stato sociale, le libertà civili, sono realtà più o meno affermate nell'Europa occidentale. Dopo la fine della Guerra Fredda, fra molte contraddizioni, si stanno consolidando almeno in alcuni degli ex satelliti europei di Mosca. Non è facile - anzi è impossibile - reinventare un altro set di obiettivi paragonabili a quello per cui generazioni di militanti progressisti si sono dedicate da oltre un secolo.

Ha ancora senso, dunque, la sinistra? Non è una grandiosa ma ormai esausta pianta, che ha dato quanto poteva? Negli ultimi dieci-vent'anni molte persone culturalmente e biograficamente di sinistra sembrano essersene convinte, anche se non tutti lo confessano. Soprattutto ne sono convinti alcuni leader politici della sinistra, o almeno da essa provenienti. Per i quali si tratta di dichiarare chiusa la grande stagione novecentesca della socialdemocrazia e degli altri riformismi (comunismo italiano, entro certo limiti, compreso), inclusi i partiti strutturati sul territorio, di massa e con un forte grado di democrazia interna che quella vicenda hanno segnato.


Che cosa resta? Una politica molto leggera, fatta di riferimenti ecumenici, in cui termini come 'socialismo' o persino 'sinistra' sono banditi perché compromettenti. Non sufficientemente universali. Una politica a tutto spin. Che ha abbandonato una radicata cultura politica non per fondarne una nuova, ma illudendosi che non serva averne una propria. Che basti metterne insieme pezzi pescati ovunque, come in una scatola di Meccano. Se però alla fine resta solo la comunicazione, non c'è talento o carisma di leader che possa surrogare l'identità collettiva. La parabola del laburismo inglese, dal grande comunicatore Blair a 'Mr. Bean' Brown, insegna. Ex comunisti italiani e, in parte, socialisti francesi - insieme a molti altri - hanno provato a emulare il neolaburismo, con i risultati che conosciamo. E con la destra che si riscopre 'sociale', rubando alla sinistra metodi, obiettivi e infine elettori.

In un mondo complessivamente più ricco ma molto più diseguale, prima o poi la sinistra dovrà riscoprire la necessità di se stessa. Fuori d'Europa lo si vede già. Qui da noi, non ancora, con la notevole eccezione di Zapatero. Quante altre batoste serviranno per accorgersene?
(09 maggio 2008)

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sabato 10 maggio 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

RIFLESSIONI SUL GOVERNO
Il fattore incompetenza
(Giovanni Sartori - Corriere della Sera)



Parecchi italiani tornano a sperare. I partitini sono stati spazzati via, la squadra di governo è stata messa assieme in pochi giorni, e il cosiddetto Berlusconi IV durerà, si prevede, cinque anni. Tutto bello e bene. Ma ci sono anche cose che non vanno bene. E l'aspetto che mi colpisce di più del nuovo governo è la quasi totale e abissale incompetenza (impreparazione, inesperienza) dei suoi componenti. Salvo pochissime eccezioni (Tremonti, Sacconi, Brunetta) l'incompetenza regna sovrana. Si dirà che è sempre stato così sin da quando la Dc inventò il manuale Cencelli per la spartizione dei posti di governo. Però proprio così no. Ai tempi del dominio Dc non c'era alternanza. Inoltre vigeva la convenzione dei governi «brevi». Pertanto il potere veniva spartito in rapida rotazione pescando sempre nella stessa nomenklatura. Il che consentiva a tutti di tornare più volte al potere, e così finiva che molti tornassero a ministeri che avevano già guidato. La competenza valeva poco anche allora; ma la prassi finiva per produrre ministri che si erano man mano addestrati. Oggi non è più così. E il manuale Cancelli è testé stato perfezionato dal manuale Verdini (un sistema di punteggio per le posizioni di potere che determina i posti assegnati a Fi, An e Lega). Senza contare che se uno sbaglia una volta e poi continua a malfare cento volte, alla fine il danno è centuplicato. Difatti è per questo che oggi siamo, nell'Occidente, quasi in fondo in quasi tutte le graduatorie. Facciamo qualche esempio. I ministeri particolarmente importanti e difficili sono oggi Interni (Maroni), Riforme (Bossi), Giustizia (Angelino Alfano), Istruzione (Mariastella Gelmini), Ambiente (Prestigiacomo). Mi soffermo su quest'ultimo. Il ministero dell'Ambiente esiste da tempo, ma nessuno se ne è accorto. Pecoraro Scanio, il ministro uscente, verrà ricordato per aver bloccato i termovalorizzatori a Napoli; e il suo predecessore Altero Matteoli (oggi alle Infrastrutture) non lascia alcun ricordo: è un eolico, va dove il vento lo porta. Il fatto è che i nostri ambientalisti difendono soltanto il territorio (e neanche tanto: i nostri boschi bruciano ogni anno senza che i Verdi si scuotano granché), bellamente ignorando i problemi globali dell'ecologia: inquinamento di terra e cielo, riscaldamento della terra, modificazione del clima, eccetera. Anche se abbiamo sottoscritto gli accordi di Kyoto, le nostre emissioni di gas inquinanti continuano a crescere. Ed ecco che all'Ambiente va Stefania Prestigiacomo, senza dubbio qualificata in bellezza ma non in ecologia. Sono anche a qualificazione zero il ministro della Giustizia Alfano e il Ministro dell'Istruzione, una leggiadra ma ignotissima Mariastella Gelmini (34 anni, coordinatrice regionale di FI in Lombardia). E così via. Non mi posso dilungare. Ma sono pronto a scommettere che se all'attuale squadra del governo Berlusconi venissero affidate Mediaset, Fiat, Eni, Luxottica e simili, in pochissimo tempo diventerebbero altrettante Alitalia. Il Cavaliere si vanta di essere un imprenditore. Perché non ci spiega, allora, come mai applica all'azienda Italia criteri di reclutamento che certo non applicherebbe alle sue aziende?

10 maggio 2008

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mercoledì 7 maggio 2008

ANALISI DEL VOTO

Si ritiene utile divulgare l'analisi del voto effettuata dall'Istituto De Gasperi e ripresa da Roma Nord per il PD:


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domenica 4 maggio 2008

RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO

Il potere blindato della destra
( Eugenio Scalfari - La Repubblica)


CIRCA mezzo secolo fa - forse qualcuno ancora se lo ricorda - Mina lanciò una canzone che diceva così: "Renato Renato Renato/così carino così educato". Mi è tornata in mente ascoltando il discorso del neo-presidente del Senato, Renato Schifani, che fino a pochi giorni fa era soprannominato "iena ridens" per la sua capacità di ripetere i voleri del Capo e i suoi truculenti insulti al popolo di sinistra con un ghigno sul volto che non presagiva nulla di buono. Oggi si è trasformato: così carino così educato. La canzone di Mina gli si attaglia perfettamente.

E si attaglia anche a Gianfranco Fini, neo-presidente della Camera, e a Gianni Alemanno, neo-sindaco di Roma. Le loro movenze sono diverse da quelle di Schifani, hanno un pizzico di volontà di potenza in più e un maggior orgoglio di sé. Non sono - oggi come ieri - lo scendiletto del Capo, hanno un loro partito, una loro provenienza, una loro storia (anche se poco commendevole) dietro le spalle. Ma anche loro "governano per tutti i cittadini" anche se non per conto e in nome di tutti. Anche loro promuoveranno i talenti al di sopra degli steccati partigiani. Anche loro insomma non sono più politici politicanti ma statisti governanti. C'è da credervi?

Io penso di sì, c'è da crederci. Del resto non si è mai visto in democrazia qualcuno che, arrivato al potere sulla base del libero voto popolare, si metta a proclamare che lo userà per favorire la sua parte. Non lo fece neppure Mussolini dall'ottobre del '22 al gennaio del '25. Aveva vinto le elezioni, sia pure con una porcata di legge, e aveva formato un governo di coalizione con dentro vecchi cattolici e ancor più vecchi moderati.

Poteva fare, come disse, dell'aula sorda e grigia di Montecitorio un bivacco di manipoli, ma lo fece soltanto due anni dopo sulla scia del delitto Matteotti. La dittatura rompe le regole della democrazia e rende inutile l'ipocrisia. Il Parlamento fu abolito, i partiti dissolti salvo il suo che fu identificato con lo Stato, la libera stampa mandata in soffitta, come ha auspicato Beppe Grillo e le centinaia di migliaia dei suoi seguaci paganti nel "Vaffa-day" del 25 aprile.

Questa volta le cose non andranno così per molte ragioni. Il mondo è globale, l'economia è globale, la cultura è globale, le informazioni sono globali e anche il commercio è globale. L'Italia è una regione dell'Europa. La nostra moneta è quella europea. Una dittatura totalitaria oggi è impensabile in Europa e in Occidente. E poi la classe dirigente del centrodestra non ha alcuna somiglianza con lo squadrismo diciannovista.

Perciò quel pericolo non c'è. Ce ne sono altri che possono suscitare serie preoccupazioni.

* * *

I marxisti spiegavano la storia dei popoli attraverso il rapporto tra le forze produttive e le istituzioni chiamando le prime "struttura" e le seconde "sovrastruttura". Lo ricorda Giorgio Ruffolo nel suo bellissimo libro "Il capitalismo ha i secoli contati" che è la più lucida ricostruzione della globalizzazione che stiamo vivendo e dei fenomeni che l'hanno preceduta.

Tra la struttura e la sovrastruttura non esiste un rapporto di automatica determinazione come pensavano rozzamente i marxisti militanti del secolo scorso. C'è invece una continua interazione, un reciproco condizionamento. Io credo che l'emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi strutturale delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione.

Questo mutamento strutturale spiega anche la nascita del partito "liquido" dei democratici, la sconfitta del partito cattolico come arbitro centrista che era nel disegno di Casini, infine l'affondamento della sinistra massimalista.

Il comportamento più strano, ai confini dell'assurdo, è stato proprio quello della sinistra radical-massimalista, che ha attribuito a Veltroni la sua scomparsa e ha punito con il voto e con l'astensione Rutelli per castigare il leader democratico. Per gli ultimi marxisti militanti è un errore squalificante non rendersi conto che le strutture negli ultimi quindici anni sono completamente cambiate ed hanno determinato una rivoluzione sovrastrutturale. La sinistra radicale, le sue ideologie, i suoi slogan, la sua organizzazione politica galleggiavano sul vuoto che essa stessa aveva ulteriormente aggravato segando l'ultimo ramo che ancora la sosteneva e cioè l'operatività del governo Prodi.

Il loro stupore per la scomparsa del loro mondo, quello sì, è stupefacente e direi senza appello: chi ha smesso di pensare smette di vivere. Questo è accaduto, con buona pace di Sansonetti, direttore del più assurdo (e come tale utile) giornale oggi in circolazione.

* * *

L'ascesa al potere del triumvirato Berlusconi, Bossi, Fini-Alemanno, che si completa in quadrumvirato con l'inevitabile cooptazione del siciliano Lombardo, si fonda su una precisa ideologia, sì, riemerge l'ideologia, è un fatto nuovo del quale è bene prendere atto. Chi l'ha declinata meglio di tutti è stato Fini nel suo discorso alla Camera dei deputati.

Si basa sulle radici cristiane, anzi cattoliche, sulla condanna del relativismo, sull'esistenza d'una verità assoluta e sulla morale che ne deriva. Sulla tolleranza (relativa) delle altre culture a discrezione del Principe. Sulla protezione e la sicurezza dei cittadini per mettere in fuga la loro insicurezza. Sulla convivenza tra il potere forte dello Stato e la società federale.

Berlusconi rappresenta il vertice del Triumvirato-Quadrumvirato: un tavolo a tre gambe, un triangolo retto che è sempre uguale a se stesso su qualunque lato venga poggiato perché il bello del populismo consiste nella ubiquità di Berlusconi, leghista, statalista, liberista, per naturale e plurima vocazione.

Perciò, salvo errori o malasorte, puntare su laceranti contrasti tra i triumviri è sbagliato: c'è trippa per tutti e anche per Grillo che dissoda il terreno dove i triumviri semineranno e raccoglieranno. Così saranno i cinque anni che ci aspettano. Buon pro ci faccia.
Ma dunque non c'è niente da fare? Al contrario, penso che ci sia moltissimo.

* * *

Una volta tanto provo a descrivere il Partito democratico in negativo, cioè per quello che non è. Un modo come un altro per disegnarne un profilo identitario.

Non è il partito dell'ideologia assolutista. Non è un partito con radici cattoliche o comunque religiose. Non è un partito liberista. Non è un partito classista. Non è il partito dello Stato forte. Non è un partito protezionista.

Quindi: è un partito laico e non ideologico, liberal-democratico, costituzionale di questa Costituzione e dei suoi principi fondativi. Non trasformista ma disponibile a partecipare - se potrà - all'elaborazione delle riforme istituzionali. Vuole un libero mercato nutrito di libera concorrenza, con regole efficaci e istituzioni capaci di farle rispettare. Un partito con una sua visione nazionale nel quadro di un'Europa federale.

Così sembra a me che debba essere.

Nell'idea originaria Veltroni ha puntato su una forma che fu definita "liquida", poggiata sul popolo delle primarie. Questa formula, che anche a me sembrava utilmente innovativa rispetto alla tradizionale forma-partito, si è invece rivelata inefficace. L'esperienza della campagna elettorale ha dimostrato che le primarie sono uno strumento selettivo utile ma non l'ossatura di un partito che deve vivere sul radicamento territoriale. C'è bisogno d'una struttura militante e identificata con gli interessi del territorio e di un vertice solido e plurimo che indichi le priorità e i mezzi disponibili per attuarle. Che non sia casta ma rappresentanza. Locale ma con visione nazionale.

Il Partito democratico rappresenta il solo sbocco politico possibile della sinistra italiana e deve perseguire quest'obiettivo. Rappresenta il solo sblocco possibile dei cattolici adulti, che abbiano intensi sentimenti di fede e non di idolatrie o di calcoli politicanti. Questi cattolici sono minoranza tra i tanti battezzati indifferenti e ruiniani? Ma i cattolici veri, quelli di fede e di responsabilità personale, sono sempre stati minoritari, quello è il loro vanto e la loro dignità religiosa così come lo è per i laici non credenti ma rispettosi del sacro e delle sue non idolatriche manifestazioni.

Ricordo qui una lezione di Ugo La Malfa: impegnò la sua vita politica per cambiare la sinistra di cui si sentiva parte, per cambiare la Democrazia cristiana con la quale fu alleato e per cambiare il capitalismo italiano trasformando gli imprenditori in una consapevole borghesia.

Secondo il mio modo di vedere il Partito democratico deve farsi portatore di analoghe e alte ambizioni che sono al tempo stesso culturali sociali e politiche.

Il riformismo di centrosinistra in un paese come il nostro è minoritario. Lo è sempre stato ma ha, deve avere, vocazione maggioritaria. Del resto le grandi trasformazioni sono sempre state - e non solo in Italia - realizzate da minoranze che seppero operare nel senso della storia programmando il futuro, rappresentando il paese vitale e responsabile, consapevole dei difetti, dei limiti e delle virtù degli italiani.

Un gruppo dirigente coeso e non castale può e dev'essere animato da una grande ambizione. La sconfitta è stata dura, gli errori ci sono stati. Ambizione, non vanità. Dialogo, non trasformismo. Pragmatismo, non improvvisazione.

C'è molto da fare.

04 maggio 2008


Radici forti e rami secchi
è lo strano albero del Pd
(Ilvio Diamanti - La Repubblica)


IL RISULTATO ottenuto dal Pd alle elezioni mantiene molti margini di ambiguità. Difficile da valutare quel 33%. Forse non deludente. Di sicuro, neppure esaltante. E viceversa. Sostanzialmente invariato, rispetto al 2006.
Mezzo punto percentuale in più se, oltre ai voti ottenuti dall'Ulivo, si considera il contributo dei Consumatori e dei Radicali (presenti nelle liste del Pd). Mentre in questi due anni, la distanza dal Pdl si è ridotta di qualche decimale, rispetto a quella fra Ulivo e Fi-An, considerati insieme. Poco più di 4 punti.

Se si legge la storia elettorale della seconda Repubblica in chiave bipartitica, d'altronde, ciò che colpisce è, soprattutto, la stabilità. L'Ulivo - e prima i Ds e la Margherita oppure i Popolari, considerati insieme - ha sempre ottenuto intorno al 30%. Il minimo nel 1996: 28% (ma il 32% se si considera la Lista Dini, che in seguito entrerà nella Margherita). Il massimo proprio in queste elezioni. Il che definisce la misura della sinistra riformista: meno di un terzo dell'elettorato. Mentre la base del Pdl, calcolata sommando Fi e An, oscilla maggiormente (soprattutto a causa della competizione di Fi con la Lega): fra il 36% (nel 1996) e il 41% (nel 2001). Sempre sopra al Pd, comunque. Anche se la distanza fra i due soggetti politici, in queste ultime elezioni, appare ridotta come mai in precedenza.

Il problema è che la lettura "bipartitica" non permette di capire con chiarezza il senso della competizione elettorale nell'Italia della seconda Repubblica. Perché il Pd e il Pdl, anche nelle versioni precedenti, non si presentano mai da soli. La differenza, dunque, la fanno sempre gli alleati. L'ampiezza delle coalizioni e la misura dei partiti con cui si coalizzano. Fino al limite del 2006. Quando la nuova legge elettorale viene interpretata in senso "aggregativo". Per cui, intorno a Berlusconi e Prodi, si coalizzano tutte le sigle, dalle più grandi a quelle minime. E l'elettorato si ricompone e si divide in due bacini perfettamente uguali.

Questa volta, invece, Veltroni ha scelto la strada della semplificazione, puntando tutto sul Pd. Berlusconi lo ha seguito. Ma la politica delle alleanze, per quanto a corto raggio, ha continuato a pesare. Con esiti asimmetrici. Perché la distanza fra Pdl e Pd, rispetto alle elezioni precedenti, è rimasta inalterata. Non quella fra le coalizioni. Il risultato conseguito dalla Lega, nel Nord, e dal Mpa, nel Mezzogiorno, ha sovrastato quello, rilevante, ottenuto dalla Lista Di Pietro. Per cui il distacco fra le coalizioni che sostengono Berlusconi e Veltroni è più che raddoppiato: da 4 punti percentuali a 9.

Da ciò il rischio, per il Pd: restare minoranza. Influente, ma permanente. Incapace di attrarre, per ora, quel 40% di elettorato potenziale, stimato dai sondaggi. Nato per sottrarsi al ricatto delle alleanze frammentarie, che permettono di vincere le elezioni ma impediscono di governare. Per costruire un polo riformista, in grado di allargarsi al centro e a sinistra. In questa occasione non ci è riuscito. Visto che, rispetto al 2006, è "scomparso" il 7% degli elettori. Oltre due milioni e mezzo di voti. Che, due anni fa, avevano votato per i partiti della sinistra cosiddetta radicale e, quindi, per l'Unione.

Mentre oggi, nel conteggio conclusivo, non ci sono più. Spariti. Fra le pieghe dell'astensione. Fuggiti, in misura limitata, a destra. Confluiti, in piccola parte, nell'alleanza per Veltroni, in nome del "voto utile". Insomma, un problema - forse "il" problema - del Pd sembra essere lo scarso grado di flessibilità. Nonostante la capacità di Veltroni di "personalizzarlo". Di sfidare Berlusconi sullo stesso piano. Per contrastare le resistenze dell'elettorato. Per sottrarsi all'eredità - e al vincolo - del rapporto con il territorio.

Ma forse il problema è proprio lì. Il rapporto con il territorio. Troppo forte e troppo fatuo, al tempo stesso. Il territorio: in cui il Pd appare imprigionato. E che, al contempo, non riesce a rappresentare davvero. Risulta, infatti, evidente, ma anche inquietante, il grado di coerenza e continuità territoriale con la base elettorale della sinistra comunista e postcomunista espresso dal Pd. La cui attuale geografia del voto riproduce, con poche variazioni, quella delineata dai Ds nel 1996, dal Pds nel 1992, fino al Pci nel 1953.

La personalizzazione e la mediatizzazione, imposte da Veltroni, non sembrano aver spostato i confini del voto. Neppure le primarie. Che hanno garantito una grande mobilitazione, ma riproducono ancora, in parte, il peso del passato. Non solo delle tradizioni storiche. Anche delle organizzazioni di partito; dei gruppi di pressione locali. Come dimostra la geografia della partecipazione dello scorso ottobre. Che ha raggiunto i livelli più elevati nel Mezzogiorno (con alcune punte stratosferiche come in Calabria). Superiori perfino alle regioni "rosse". Nel Sud, effettivamente, il Pd è cresciuto. Ma in misura modesta. E molto inferiore al Pdl.

In altri termini, abbiamo l'impressione che il "nuovo" Pd sia rimasto imprigionato dentro logiche vecchie. Che hanno ostacolato anche la capacità di leggere, correttamente, ciò che sta avvenendo sul territorio. Il viaggio di Veltroni attraverso il Nord, ad esempio, ha raccolto grande partecipazione. Ha reso visibile una domanda sociale ampia e generosa. Che, tuttavia, era ed è rimasta minoranza. La richiesta di cambiamento è stata intercettata perlopiù dalla Lega.

Nei pochi luoghi significativi dove ha vinto, peraltro, il Pd "nazionale" è stato colto di sorpresa. Come a Vicenza. Una vittoria inattesa. Considerata un caso fortuito e fortunato. Quasi che recuperare 3 punti percentuali in cinque anni (a Vicenza il centrosinistra aveva ottenuto il 47% al secondo turno, nel 2003) fosse più sorprendente che perderne 20 a Roma in due anni.

Il Pd, in altri termini, ci sembra ancora un progetto incompiuto. Riflette una domanda diffusa. Ha raccolto un ampio sostegno sociale. Riscuote attenzione e curiosità, nei settori moderati e di sinistra. Una "novità" attraente, ma "vecchia" dal punto di vista del gruppo dirigente. Nazionale e ancor più locale. Dove i giovani, le donne, i lavoratori, gli imprenditori, insomma, i "nuovi", quando si affacciano alla politica trovano porte strette. La strategia di marketing, utilizzata da Veltroni per forzare questo limite attraverso candidature simboliche (il piccolo imprenditore, la giovane ricercatrice, l'operaio ecc.), alla fine, si è scontrata con una realtà "radicalmente" (= alla radice) diversa. Dove prevalgono i "vecchi", non solo e non tanto per età. Ma per mentalità e carriera.

D'altronde, i leader del Pd - grandi e piccoli, centrali e locali - sembrano impermeabili a ogni mutamento di sigla, a ogni cambio d'epoca, a ogni sconfitta. (e, sia chiaro, non ci riferiamo a Veltroni). Insensibili al crollo dei muri, delle ideologie e dei partiti. Altrove, negli Usa e in Europa, abbiamo assistito, in questi ultimi anni, al "ritiro" di figure come Gore, Kerry, Schroeder, Aznar, Gonzales, Blair. Battuti di poco. A volte, neppure. In Italia, salvo Prodi (l'unico, peraltro, ad aver vinto una elezione e mezza contro il Cavaliere), nessuno si dimette; nessuno paga le sconfitte subite in città e regioni importanti.

Non solo: gli sconfitti vengono premiati con nuovi incarichi di prestigio. Mentre tutto il gruppo dirigente - ex comunista ed ex-democristiano - ha affollato le liste del Pd, occupando posti di assoluta sicurezza. In centro e in periferia.

Il Pd: è rimasto a metà del guado. Incerto. Fra partito di iscritti e partito elettorale. Fra personalizzazione nazionale e oligarchia locale. Agita le primarie come una bandiera. Ma non le usa per selezionare i candidati alle elezioni politiche; spesso neppure alle amministrative. Mentre, a livello nazionale, fino ad oggi sono servite a confermare leader pre-destinati. Vorrebbe rappresentare il Nord restando Lega Centro. I piedi in Emilia e in Toscana. La testa a Roma.

E' uno strano albero, questo Pd. Le radici salde. Fin troppo. Non riescono a propagarsi. Il fusto fragile. I rami rinsecchiti. Le foglie crescono. Tante.
Ma cadono presto.

(4 maggio 2008)

Democrazia sotto ricatto
(Sergio Romano - Corriere della Sera)



Fra «La casta», apparso nella primavera dell'anno scorso, e «La deriva », l'ultimo libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, esiste una importante differenza. «La casta » è la radiografia di una classe politico-amministrativa (secondo gli autori 179.485 persone) che ha usato il potere per distribuire a se stessa uno strabiliante numero di favori, prebende e privilegi, spesso in evidente contraddizione con le ricette che i suoi membri applicavano al resto del Paese. L'apparizione del libro suscitò uno scandalo che ha alimentato il dibattito politico italiano sino alle ultime elezioni. Ma qualcuno, con una buona dose di realismo amorale, avrebbe potuto sostenere che l'indebito arricchimento dei governanti non comporta necessariamente il declino del Paese e l'impoverimento dei cittadini. Vi sono stati ministri, governatori e sindaci corrotti che hanno adottato buone leggi, fatto eccellenti riforme, costruito importanti infrastrutture e migliorato la vita dei loro compatrioti.

«La deriva» dimostra che in Italia è accaduto esattamente il contrario. Il governo dei ricchi ha reso il Paese più povero, più ingiusto, meno educato, meno assistito e curato, meno intraprendente e meno dotato di servizi moderni di quanto fosse negli anni in cui i suoi uomini politici erano più sobri. Siamo al 46˚posto nella lista dei Paesi più competitivi. Il nostro commercio internazionale ha perso quote di mercato (nell'Unione Europea meno 11,8% dal 2001 al 2006). La produttività del lavoro, nello stesso periodo, è cresciuta dell' 1% contro l'8,6% in Francia e il 7,7% in Germania. Da noi l'avvio di un'attività economica richiede 16 procedure e 66 giorni contro 8 procedure e 31 giorni nei Paesi Bassi. In poco più di trent'anni siamo scesi dal terzo al dodicesimo posto nella classifica delle autostrade europee. Il numero dei container che passano attraverso i sette maggiori porti della penisola è più piccolo (un milione di meno) di quello dei container trattati dal porto di Amburgo. La migliore università pubblica italiana è al 173˚posto nella graduatoria dei migliori atenei del mondo. Gli italiani che usano Internet nei rapporti con la pubblica amministrazione sono il 17% dei cittadini fra i 16 e i 74 anni contro il 43% della Germania, il 41 della Francia, il 38 della Gran Bretagna e il 26 della Spagna. Il tasso di occupazione femminile (46,3%) è inferiore a quello della Grecia. Nella classifica dei Paesi che maggiormente attraggono investimenti stranieri l'Italia è agli ultimi posti. Dati analoghi emergono dalle statistiche comparate su ferrovie, Alta velocità, metropolitane, inceneritori, rigassificatori, energie alternative. Se v'imbattete in una qualsiasi classifica è inutile che cerchiate l'Italia in cima alla pagina: la troverete soltanto spostando lo sguardo verso il basso.

Dopo avere chiuso il libro di Stella e Rizzo il lettore constaterà che le ragioni di questa deriva sono apparentemente diverse, ma in realtà quasi sempre le stesse. Quando un ministro riformatore o un parlamentare coraggioso tentano di rendere il sistema più flessibile, più competitivo e più dinamico, qualcuno si oppone.

I sindacati della scuola non vogliono che il lavoro dei docenti venga soggetto a periodiche verifiche. I sindacati della funzione pubblica respingono le note di qualifica come vessatorie. Gli ordini professionali difendono strenuamente i loro privilegi e proteggono i loro soci anche quando dovrebbero espellerli. Le popolazioni locali vogliono le grandi opere pubbliche purché non vengano costruite sul loro territorio. Ogni riforma trova sulla sua strada una corporazione o una lobby che è perfettamente in grado di fare deragliare il treno della modernità. Ogni tentativo riformatore si conclude con un mediocre compromesso che ne riduce l'efficacia e ne aumenta i costi.
I partiti, dal canto loro, contribuiscono alla generale inefficienza del sistema disseminando i loro clienti e seguaci in tutte le branche della vita pubblica. E il cliente, una volta insediato in un posto di comando, conserva il potere fornendo voti e favori al suo protettore. In questo vuoto di moralità politica le famiglie criminali sono riuscite a conquistare regioni dove influiscono direttamente o indirettamente sulle scelte elettorali di una parte considerevole della popolazione. Il vero protagonista del libro di Stella e Rizzo è una gigantesca macchina clientelare che scambia voti contro favori e denaro, paralizza i riformatori, ricatta i governi, impedisce all'Italia di crescere.

Non è vero che la situazione sia ormai senza scampo. È ancora possibile rompere questo circolo vizioso e liberare la democrazia ricattata dalle corporazioni. Ma è necessario uno sforzo nazionale, vale a dire molto più di una semplice maggioranza di governo. E occorre un governo che dimostri di averlo capito sin dal primo giorno del suo lavoro.



04 maggio 2008

postato da pd.montagnola

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