RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO
Il potere blindato della destra( Eugenio Scalfari - La Repubblica)
CIRCA mezzo secolo fa - forse qualcuno ancora se lo ricorda - Mina lanciò una canzone che diceva così: "Renato Renato Renato/così carino così educato". Mi è tornata in mente ascoltando il discorso del neo-presidente del Senato, Renato Schifani, che fino a pochi giorni fa era soprannominato "iena ridens" per la sua capacità di ripetere i voleri del Capo e i suoi truculenti insulti al popolo di sinistra con un ghigno sul volto che non presagiva nulla di buono. Oggi si è trasformato: così carino così educato. La canzone di Mina gli si attaglia perfettamente.
E si attaglia anche a Gianfranco Fini, neo-presidente della Camera, e a Gianni Alemanno, neo-sindaco di Roma. Le loro movenze sono diverse da quelle di Schifani, hanno un pizzico di volontà di potenza in più e un maggior orgoglio di sé. Non sono - oggi come ieri - lo scendiletto del Capo, hanno un loro partito, una loro provenienza, una loro storia (anche se poco commendevole) dietro le spalle. Ma anche loro "governano per tutti i cittadini" anche se non per conto e in nome di tutti. Anche loro promuoveranno i talenti al di sopra degli steccati partigiani. Anche loro insomma non sono più politici politicanti ma statisti governanti. C'è da credervi?
Io penso di sì, c'è da crederci. Del resto non si è mai visto in democrazia qualcuno che, arrivato al potere sulla base del libero voto popolare, si metta a proclamare che lo userà per favorire la sua parte. Non lo fece neppure Mussolini dall'ottobre del '22 al gennaio del '25. Aveva vinto le elezioni, sia pure con una porcata di legge, e aveva formato un governo di coalizione con dentro vecchi cattolici e ancor più vecchi moderati.
Poteva fare, come disse, dell'aula sorda e grigia di Montecitorio un bivacco di manipoli, ma lo fece soltanto due anni dopo sulla scia del delitto Matteotti. La dittatura rompe le regole della democrazia e rende inutile l'ipocrisia. Il Parlamento fu abolito, i partiti dissolti salvo il suo che fu identificato con lo Stato, la libera stampa mandata in soffitta, come ha auspicato Beppe Grillo e le centinaia di migliaia dei suoi seguaci paganti nel "Vaffa-day" del 25 aprile.
Questa volta le cose non andranno così per molte ragioni. Il mondo è globale, l'economia è globale, la cultura è globale, le informazioni sono globali e anche il commercio è globale. L'Italia è una regione dell'Europa. La nostra moneta è quella europea. Una dittatura totalitaria oggi è impensabile in Europa e in Occidente. E poi la classe dirigente del centrodestra non ha alcuna somiglianza con lo squadrismo diciannovista.
Perciò quel pericolo non c'è. Ce ne sono altri che possono suscitare serie preoccupazioni.
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I marxisti spiegavano la storia dei popoli attraverso il rapporto tra le forze produttive e le istituzioni chiamando le prime "struttura" e le seconde "sovrastruttura". Lo ricorda Giorgio Ruffolo nel suo bellissimo libro "Il capitalismo ha i secoli contati" che è la più lucida ricostruzione della globalizzazione che stiamo vivendo e dei fenomeni che l'hanno preceduta.
Tra la struttura e la sovrastruttura non esiste un rapporto di automatica determinazione come pensavano rozzamente i marxisti militanti del secolo scorso. C'è invece una continua interazione, un reciproco condizionamento. Io credo che l'emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi strutturale delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione.
Questo mutamento strutturale spiega anche la nascita del partito "liquido" dei democratici, la sconfitta del partito cattolico come arbitro centrista che era nel disegno di Casini, infine l'affondamento della sinistra massimalista.
Il comportamento più strano, ai confini dell'assurdo, è stato proprio quello della sinistra radical-massimalista, che ha attribuito a Veltroni la sua scomparsa e ha punito con il voto e con l'astensione Rutelli per castigare il leader democratico. Per gli ultimi marxisti militanti è un errore squalificante non rendersi conto che le strutture negli ultimi quindici anni sono completamente cambiate ed hanno determinato una rivoluzione sovrastrutturale. La sinistra radicale, le sue ideologie, i suoi slogan, la sua organizzazione politica galleggiavano sul vuoto che essa stessa aveva ulteriormente aggravato segando l'ultimo ramo che ancora la sosteneva e cioè l'operatività del governo Prodi.
Il loro stupore per la scomparsa del loro mondo, quello sì, è stupefacente e direi senza appello: chi ha smesso di pensare smette di vivere. Questo è accaduto, con buona pace di Sansonetti, direttore del più assurdo (e come tale utile) giornale oggi in circolazione.
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L'ascesa al potere del triumvirato Berlusconi, Bossi, Fini-Alemanno, che si completa in quadrumvirato con l'inevitabile cooptazione del siciliano Lombardo, si fonda su una precisa ideologia, sì, riemerge l'ideologia, è un fatto nuovo del quale è bene prendere atto. Chi l'ha declinata meglio di tutti è stato Fini nel suo discorso alla Camera dei deputati.
Si basa sulle radici cristiane, anzi cattoliche, sulla condanna del relativismo, sull'esistenza d'una verità assoluta e sulla morale che ne deriva. Sulla tolleranza (relativa) delle altre culture a discrezione del Principe. Sulla protezione e la sicurezza dei cittadini per mettere in fuga la loro insicurezza. Sulla convivenza tra il potere forte dello Stato e la società federale.
Berlusconi rappresenta il vertice del Triumvirato-Quadrumvirato: un tavolo a tre gambe, un triangolo retto che è sempre uguale a se stesso su qualunque lato venga poggiato perché il bello del populismo consiste nella ubiquità di Berlusconi, leghista, statalista, liberista, per naturale e plurima vocazione.
Perciò, salvo errori o malasorte, puntare su laceranti contrasti tra i triumviri è sbagliato: c'è trippa per tutti e anche per Grillo che dissoda il terreno dove i triumviri semineranno e raccoglieranno. Così saranno i cinque anni che ci aspettano. Buon pro ci faccia.
Ma dunque non c'è niente da fare? Al contrario, penso che ci sia moltissimo.
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Una volta tanto provo a descrivere il Partito democratico in negativo, cioè per quello che non è. Un modo come un altro per disegnarne un profilo identitario.
Non è il partito dell'ideologia assolutista. Non è un partito con radici cattoliche o comunque religiose. Non è un partito liberista. Non è un partito classista. Non è il partito dello Stato forte. Non è un partito protezionista.
Quindi: è un partito laico e non ideologico, liberal-democratico, costituzionale di questa Costituzione e dei suoi principi fondativi. Non trasformista ma disponibile a partecipare - se potrà - all'elaborazione delle riforme istituzionali. Vuole un libero mercato nutrito di libera concorrenza, con regole efficaci e istituzioni capaci di farle rispettare. Un partito con una sua visione nazionale nel quadro di un'Europa federale.
Così sembra a me che debba essere.
Nell'idea originaria Veltroni ha puntato su una forma che fu definita "liquida", poggiata sul popolo delle primarie. Questa formula, che anche a me sembrava utilmente innovativa rispetto alla tradizionale forma-partito, si è invece rivelata inefficace. L'esperienza della campagna elettorale ha dimostrato che le primarie sono uno strumento selettivo utile ma non l'ossatura di un partito che deve vivere sul radicamento territoriale. C'è bisogno d'una struttura militante e identificata con gli interessi del territorio e di un vertice solido e plurimo che indichi le priorità e i mezzi disponibili per attuarle. Che non sia casta ma rappresentanza. Locale ma con visione nazionale.
Il Partito democratico rappresenta il solo sbocco politico possibile della sinistra italiana e deve perseguire quest'obiettivo. Rappresenta il solo sblocco possibile dei cattolici adulti, che abbiano intensi sentimenti di fede e non di idolatrie o di calcoli politicanti. Questi cattolici sono minoranza tra i tanti battezzati indifferenti e ruiniani? Ma i cattolici veri, quelli di fede e di responsabilità personale, sono sempre stati minoritari, quello è il loro vanto e la loro dignità religiosa così come lo è per i laici non credenti ma rispettosi del sacro e delle sue non idolatriche manifestazioni.
Ricordo qui una lezione di Ugo La Malfa: impegnò la sua vita politica per cambiare la sinistra di cui si sentiva parte, per cambiare la Democrazia cristiana con la quale fu alleato e per cambiare il capitalismo italiano trasformando gli imprenditori in una consapevole borghesia.
Secondo il mio modo di vedere il Partito democratico deve farsi portatore di analoghe e alte ambizioni che sono al tempo stesso culturali sociali e politiche.
Il riformismo di centrosinistra in un paese come il nostro è minoritario. Lo è sempre stato ma ha, deve avere, vocazione maggioritaria. Del resto le grandi trasformazioni sono sempre state - e non solo in Italia - realizzate da minoranze che seppero operare nel senso della storia programmando il futuro, rappresentando il paese vitale e responsabile, consapevole dei difetti, dei limiti e delle virtù degli italiani.
Un gruppo dirigente coeso e non castale può e dev'essere animato da una grande ambizione. La sconfitta è stata dura, gli errori ci sono stati. Ambizione, non vanità. Dialogo, non trasformismo. Pragmatismo, non improvvisazione.
C'è molto da fare.
04 maggio 2008
Radici forti e rami secchi
è lo strano albero del Pd
(Ilvio Diamanti - La Repubblica)
IL RISULTATO ottenuto dal Pd alle elezioni mantiene molti margini di ambiguità. Difficile da valutare quel 33%. Forse non deludente. Di sicuro, neppure esaltante. E viceversa. Sostanzialmente invariato, rispetto al 2006.
Mezzo punto percentuale in più se, oltre ai voti ottenuti dall'Ulivo, si considera il contributo dei Consumatori e dei Radicali (presenti nelle liste del Pd). Mentre in questi due anni, la distanza dal Pdl si è ridotta di qualche decimale, rispetto a quella fra Ulivo e Fi-An, considerati insieme. Poco più di 4 punti.
Se si legge la storia elettorale della seconda Repubblica in chiave bipartitica, d'altronde, ciò che colpisce è, soprattutto, la stabilità. L'Ulivo - e prima i Ds e la Margherita oppure i Popolari, considerati insieme - ha sempre ottenuto intorno al 30%. Il minimo nel 1996: 28% (ma il 32% se si considera la Lista Dini, che in seguito entrerà nella Margherita). Il massimo proprio in queste elezioni. Il che definisce la misura della sinistra riformista: meno di un terzo dell'elettorato. Mentre la base del Pdl, calcolata sommando Fi e An, oscilla maggiormente (soprattutto a causa della competizione di Fi con la Lega): fra il 36% (nel 1996) e il 41% (nel 2001). Sempre sopra al Pd, comunque. Anche se la distanza fra i due soggetti politici, in queste ultime elezioni, appare ridotta come mai in precedenza.
Il problema è che la lettura "bipartitica" non permette di capire con chiarezza il senso della competizione elettorale nell'Italia della seconda Repubblica. Perché il Pd e il Pdl, anche nelle versioni precedenti, non si presentano mai da soli. La differenza, dunque, la fanno sempre gli alleati. L'ampiezza delle coalizioni e la misura dei partiti con cui si coalizzano. Fino al limite del 2006. Quando la nuova legge elettorale viene interpretata in senso "aggregativo". Per cui, intorno a Berlusconi e Prodi, si coalizzano tutte le sigle, dalle più grandi a quelle minime. E l'elettorato si ricompone e si divide in due bacini perfettamente uguali.
Questa volta, invece, Veltroni ha scelto la strada della semplificazione, puntando tutto sul Pd. Berlusconi lo ha seguito. Ma la politica delle alleanze, per quanto a corto raggio, ha continuato a pesare. Con esiti asimmetrici. Perché la distanza fra Pdl e Pd, rispetto alle elezioni precedenti, è rimasta inalterata. Non quella fra le coalizioni. Il risultato conseguito dalla Lega, nel Nord, e dal Mpa, nel Mezzogiorno, ha sovrastato quello, rilevante, ottenuto dalla Lista Di Pietro. Per cui il distacco fra le coalizioni che sostengono Berlusconi e Veltroni è più che raddoppiato: da 4 punti percentuali a 9.
Da ciò il rischio, per il Pd: restare minoranza. Influente, ma permanente. Incapace di attrarre, per ora, quel 40% di elettorato potenziale, stimato dai sondaggi. Nato per sottrarsi al ricatto delle alleanze frammentarie, che permettono di vincere le elezioni ma impediscono di governare. Per costruire un polo riformista, in grado di allargarsi al centro e a sinistra. In questa occasione non ci è riuscito. Visto che, rispetto al 2006, è "scomparso" il 7% degli elettori. Oltre due milioni e mezzo di voti. Che, due anni fa, avevano votato per i partiti della sinistra cosiddetta radicale e, quindi, per l'Unione.
Mentre oggi, nel conteggio conclusivo, non ci sono più. Spariti. Fra le pieghe dell'astensione. Fuggiti, in misura limitata, a destra. Confluiti, in piccola parte, nell'alleanza per Veltroni, in nome del "voto utile". Insomma, un problema - forse "il" problema - del Pd sembra essere lo scarso grado di flessibilità. Nonostante la capacità di Veltroni di "personalizzarlo". Di sfidare Berlusconi sullo stesso piano. Per contrastare le resistenze dell'elettorato. Per sottrarsi all'eredità - e al vincolo - del rapporto con il territorio.
Ma forse il problema è proprio lì. Il rapporto con il territorio. Troppo forte e troppo fatuo, al tempo stesso. Il territorio: in cui il Pd appare imprigionato. E che, al contempo, non riesce a rappresentare davvero. Risulta, infatti, evidente, ma anche inquietante, il grado di coerenza e continuità territoriale con la base elettorale della sinistra comunista e postcomunista espresso dal Pd. La cui attuale geografia del voto riproduce, con poche variazioni, quella delineata dai Ds nel 1996, dal Pds nel 1992, fino al Pci nel 1953.
La personalizzazione e la mediatizzazione, imposte da Veltroni, non sembrano aver spostato i confini del voto. Neppure le primarie. Che hanno garantito una grande mobilitazione, ma riproducono ancora, in parte, il peso del passato. Non solo delle tradizioni storiche. Anche delle organizzazioni di partito; dei gruppi di pressione locali. Come dimostra la geografia della partecipazione dello scorso ottobre. Che ha raggiunto i livelli più elevati nel Mezzogiorno (con alcune punte stratosferiche come in Calabria). Superiori perfino alle regioni "rosse". Nel Sud, effettivamente, il Pd è cresciuto. Ma in misura modesta. E molto inferiore al Pdl.
In altri termini, abbiamo l'impressione che il "nuovo" Pd sia rimasto imprigionato dentro logiche vecchie. Che hanno ostacolato anche la capacità di leggere, correttamente, ciò che sta avvenendo sul territorio. Il viaggio di Veltroni attraverso il Nord, ad esempio, ha raccolto grande partecipazione. Ha reso visibile una domanda sociale ampia e generosa. Che, tuttavia, era ed è rimasta minoranza. La richiesta di cambiamento è stata intercettata perlopiù dalla Lega.
Nei pochi luoghi significativi dove ha vinto, peraltro, il Pd "nazionale" è stato colto di sorpresa. Come a Vicenza. Una vittoria inattesa. Considerata un caso fortuito e fortunato. Quasi che recuperare 3 punti percentuali in cinque anni (a Vicenza il centrosinistra aveva ottenuto il 47% al secondo turno, nel 2003) fosse più sorprendente che perderne 20 a Roma in due anni.
Il Pd, in altri termini, ci sembra ancora un progetto incompiuto. Riflette una domanda diffusa. Ha raccolto un ampio sostegno sociale. Riscuote attenzione e curiosità, nei settori moderati e di sinistra. Una "novità" attraente, ma "vecchia" dal punto di vista del gruppo dirigente. Nazionale e ancor più locale. Dove i giovani, le donne, i lavoratori, gli imprenditori, insomma, i "nuovi", quando si affacciano alla politica trovano porte strette. La strategia di marketing, utilizzata da Veltroni per forzare questo limite attraverso candidature simboliche (il piccolo imprenditore, la giovane ricercatrice, l'operaio ecc.), alla fine, si è scontrata con una realtà "radicalmente" (= alla radice) diversa. Dove prevalgono i "vecchi", non solo e non tanto per età. Ma per mentalità e carriera.
D'altronde, i leader del Pd - grandi e piccoli, centrali e locali - sembrano impermeabili a ogni mutamento di sigla, a ogni cambio d'epoca, a ogni sconfitta. (e, sia chiaro, non ci riferiamo a Veltroni). Insensibili al crollo dei muri, delle ideologie e dei partiti. Altrove, negli Usa e in Europa, abbiamo assistito, in questi ultimi anni, al "ritiro" di figure come Gore, Kerry, Schroeder, Aznar, Gonzales, Blair. Battuti di poco. A volte, neppure. In Italia, salvo Prodi (l'unico, peraltro, ad aver vinto una elezione e mezza contro il Cavaliere), nessuno si dimette; nessuno paga le sconfitte subite in città e regioni importanti.
Non solo: gli sconfitti vengono premiati con nuovi incarichi di prestigio. Mentre tutto il gruppo dirigente - ex comunista ed ex-democristiano - ha affollato le liste del Pd, occupando posti di assoluta sicurezza. In centro e in periferia.
Il Pd: è rimasto a metà del guado. Incerto. Fra partito di iscritti e partito elettorale. Fra personalizzazione nazionale e oligarchia locale. Agita le primarie come una bandiera. Ma non le usa per selezionare i candidati alle elezioni politiche; spesso neppure alle amministrative. Mentre, a livello nazionale, fino ad oggi sono servite a confermare leader pre-destinati. Vorrebbe rappresentare il Nord restando Lega Centro. I piedi in Emilia e in Toscana. La testa a Roma.
E' uno strano albero, questo Pd. Le radici salde. Fin troppo. Non riescono a propagarsi. Il fusto fragile. I rami rinsecchiti. Le foglie crescono. Tante.
Ma cadono presto.
(4 maggio 2008)
Democrazia sotto ricatto
(Sergio Romano - Corriere della Sera)
Fra «La casta», apparso nella primavera dell'anno scorso, e «La deriva », l'ultimo libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, esiste una importante differenza. «La casta » è la radiografia di una classe politico-amministrativa (secondo gli autori 179.485 persone) che ha usato il potere per distribuire a se stessa uno strabiliante numero di favori, prebende e privilegi, spesso in evidente contraddizione con le ricette che i suoi membri applicavano al resto del Paese. L'apparizione del libro suscitò uno scandalo che ha alimentato il dibattito politico italiano sino alle ultime elezioni. Ma qualcuno, con una buona dose di realismo amorale, avrebbe potuto sostenere che l'indebito arricchimento dei governanti non comporta necessariamente il declino del Paese e l'impoverimento dei cittadini. Vi sono stati ministri, governatori e sindaci corrotti che hanno adottato buone leggi, fatto eccellenti riforme, costruito importanti infrastrutture e migliorato la vita dei loro compatrioti.
«La deriva» dimostra che in Italia è accaduto esattamente il contrario. Il governo dei ricchi ha reso il Paese più povero, più ingiusto, meno educato, meno assistito e curato, meno intraprendente e meno dotato di servizi moderni di quanto fosse negli anni in cui i suoi uomini politici erano più sobri. Siamo al 46˚posto nella lista dei Paesi più competitivi. Il nostro commercio internazionale ha perso quote di mercato (nell'Unione Europea meno 11,8% dal 2001 al 2006). La produttività del lavoro, nello stesso periodo, è cresciuta dell' 1% contro l'8,6% in Francia e il 7,7% in Germania. Da noi l'avvio di un'attività economica richiede 16 procedure e 66 giorni contro 8 procedure e 31 giorni nei Paesi Bassi. In poco più di trent'anni siamo scesi dal terzo al dodicesimo posto nella classifica delle autostrade europee. Il numero dei container che passano attraverso i sette maggiori porti della penisola è più piccolo (un milione di meno) di quello dei container trattati dal porto di Amburgo. La migliore università pubblica italiana è al 173˚posto nella graduatoria dei migliori atenei del mondo. Gli italiani che usano Internet nei rapporti con la pubblica amministrazione sono il 17% dei cittadini fra i 16 e i 74 anni contro il 43% della Germania, il 41 della Francia, il 38 della Gran Bretagna e il 26 della Spagna. Il tasso di occupazione femminile (46,3%) è inferiore a quello della Grecia. Nella classifica dei Paesi che maggiormente attraggono investimenti stranieri l'Italia è agli ultimi posti. Dati analoghi emergono dalle statistiche comparate su ferrovie, Alta velocità, metropolitane, inceneritori, rigassificatori, energie alternative. Se v'imbattete in una qualsiasi classifica è inutile che cerchiate l'Italia in cima alla pagina: la troverete soltanto spostando lo sguardo verso il basso.
Dopo avere chiuso il libro di Stella e Rizzo il lettore constaterà che le ragioni di questa deriva sono apparentemente diverse, ma in realtà quasi sempre le stesse. Quando un ministro riformatore o un parlamentare coraggioso tentano di rendere il sistema più flessibile, più competitivo e più dinamico, qualcuno si oppone.
I sindacati della scuola non vogliono che il lavoro dei docenti venga soggetto a periodiche verifiche. I sindacati della funzione pubblica respingono le note di qualifica come vessatorie. Gli ordini professionali difendono strenuamente i loro privilegi e proteggono i loro soci anche quando dovrebbero espellerli. Le popolazioni locali vogliono le grandi opere pubbliche purché non vengano costruite sul loro territorio. Ogni riforma trova sulla sua strada una corporazione o una lobby che è perfettamente in grado di fare deragliare il treno della modernità. Ogni tentativo riformatore si conclude con un mediocre compromesso che ne riduce l'efficacia e ne aumenta i costi.
I partiti, dal canto loro, contribuiscono alla generale inefficienza del sistema disseminando i loro clienti e seguaci in tutte le branche della vita pubblica. E il cliente, una volta insediato in un posto di comando, conserva il potere fornendo voti e favori al suo protettore. In questo vuoto di moralità politica le famiglie criminali sono riuscite a conquistare regioni dove influiscono direttamente o indirettamente sulle scelte elettorali di una parte considerevole della popolazione. Il vero protagonista del libro di Stella e Rizzo è una gigantesca macchina clientelare che scambia voti contro favori e denaro, paralizza i riformatori, ricatta i governi, impedisce all'Italia di crescere.
Non è vero che la situazione sia ormai senza scampo. È ancora possibile rompere questo circolo vizioso e liberare la democrazia ricattata dalle corporazioni. Ma è necessario uno sforzo nazionale, vale a dire molto più di una semplice maggioranza di governo. E occorre un governo che dimostri di averlo capito sin dal primo giorno del suo lavoro.
04 maggio 2008
postato da pd.montagnola