RASSEGNA STAMPA : UN ARTICOLO AL GIORNO
Il liberismo e la speranza(Francesco Giavazzi - Corriere della Sera)
Da una quindicina d’anni su questo giornale mi batto per il mercato, per le liberalizzazioni, per uno Stato meno invasivo. Sostengo i benefici della concorrenza e dell’apertura agli scambi, non per scelta ideologica ma perché penso che mercati aperti e concorrenza siano lo strumento per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e il futuro dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, non dal loro impegno o dalle loro capacità. Nel frattempo nel mondo sono successe alcune cose. La globalizzazione dei mercati ha consentito a mezzo miliardo di persone di uscire dalla povertà: nel 1990 le famiglie in condizioni di povertà estrema erano, nel mondo, una su tre; oggi poco meno di una su cinque.
Ma con la globalizzazione si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto nei Paesi ricchi e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi, ma piuttosto le nuove tecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (Negli Stati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni nel 1972 era, ai prezzi di oggi, 15 dollari; 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentato da 24 a 30 dollari l’ora). Come osservavano già tre anni fa Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi («La fine della classe media») in occidente è sparita la classe media tradizionale, quella che per mezzo secolo è stata il collante del sistema politico: al suo posto è nata una società nella quale chi ha scarsa istruzione è angosciato e cerca qualcuno che lo protegga. E non sempre il mercato dà buona prova di sé. Negli Stati Uniti è inciampato in un paio di infortuni.
Nel 2002 le frodi degli amministratori di Enron, Tyco e WorldCom. Oggi la crisi innescata dai mutui «subprime»: se non fossero tempestivamente intervenute le banche centrali, cioè lo Stato, i mercati rischiavano di precipitare. Talora un mercato neppure esiste, come nel caso dell’energia: prezzi e forniture di gas — l’80% dell’energia utilizzata in Italia—sono determinati da un cartello dominato dalla Russia. Pensare di aprire quel mercato alla concorrenza è un’illusione un po’ infantile, almeno fino a quando non avremo costruito una decina di rigassificatori e ci vorranno, se tutto va bene, un paio di decenni. La Cina non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato. Per mantenere un tasso di cambio sottovalutato accumula una quantità straordinaria di euro e di dollari. La crescita cinese continua a dipendere dall’industria e dalle esportazioni. A parole il partito comunista si dice preoccupato della crescente diseguaglianza, ma poi non fa quasi nulla per correggere il tiro e spingere la domanda interna, soprattutto i servizi, in primis la sanità. Sempre più i mercati aperti spaventano gli elettori. Nella campagna elettorale americana sia Obama che Hillary Clinton parlano con accenti critici della globalizzazione e si guardano bene dall’attaccare i sussidi pubblici che rendono ricchi gli agricoltori Usa a spese del resto del mondo, ad esempio dei coltivatori di cotone egiziani.
In Francia Sarkozy a parole (e non sempre) predica il mercato, ma provate ad aprire una linea aerea e a chiedere uno slot per un volo Linate-Charles De Gaulle: lo otterrete, ma alle 6 del mattino. La maggioranza degli italiani ha votato per un candidato, Silvio Berlusconi, che si è impegnato a salvare — con denaro pubblico — un’azienda che perde un milione di euro al giorno: non ho visto nessuno sfilare perché le nostre tasse vengono usate per tenere in piedi un’azienda da anni decotta. (Ho invece visto i tassisti romani festeggiare il nuovo sindaco della città che due anni fa aveva manifestato solidarietà per la violenta protesta dei tassisti contro le liberalizzazioni di Bersani). Insomma, il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come me, vorrebbe meno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi promette «protezione» dal vento della concorrenza. Che cosa non abbiamo capito, dove abbiamo sbagliato? Alcuni ritengono che il problema nasca dall’errato accostamento di «concorrenza » e «mercato».
Concorrenza significa regole: in assenza di regole non è detto che il mercato produca una società migliore di quella in cui vivremmo se venissimo affidati ad uno Stato benevolente. Affinché il mercato, la globalizzazione diventino popolari è necessario «governarli». E’ certamente vero, ma anche un po’ illuminista. Vedo anti-globalizzatori che occupano le piazze, ma non vedo cittadini che manifestano perché il Doha Round non fa un passo. La decisione dei capi di Stato dell’Ue di cancellare la concorrenza dai principi irrinunciabili stabiliti dal nuovo Trattato europeo è passata inosservata. Insomma, non mi pare che i cittadini reclamino più regole: la protezione che chiedono —e che alcuni politici promettono—è quella dei dazi e dei vincoli all’immigrazione, non l’antitrust. A me pare che i liberisti debbano porsi un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l’alternativa al mercato, al merito, alla concorrenza è una società in cui i privilegi si tramandano di generazione in generazione, i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chi nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle sue capacità. Convincerli che il modo per difendere il proprio tenore di vita è chiedere buone scuole, non dazi.
Il «miracolo economico» italiano degli anni ’50 e ’60 fu il frutto del mercato unico europeo (e della lungimiranza di alcuni leader della Democrazia Cristiana che alla fine della guerra capirono l’importanza di entrare subito nella Cee). La caduta delle barriere doganali e l’ampliamento della domanda consentirono alle nostre imprese di allargare le fabbriche e raggiungere una dimensione che ne determinò il successo. La crescita tumultuosa di quegli anni creò opportunità per tutti. Non ho dati, ma penso che se qualcuno allora avesse chiesto agli italiani che cosa pensavano dell’apertura degli scambi, la maggior parte avrebbe risposto favorevolmente. L’Europa di allora è il Brasile, l’India, la Cina dei giorni nostri, ma i più oggi le considerano minacce, non opportunità. Mi pare che l’Italia si trovi in un «cul de sac». Da un decennio abbiamo smesso di crescere: dieci anni fa il nostro reddito pro-capite era simile a Francia e Germania, 27% più elevato che in Spagna, 3% più che in Gran Bretagna.
In questi anni abbiamo perso dieci punti rispetto a Francia e Germania, siamo stati raggiunti dalla Spagna e di nuovo superati dalla Gran Bretagna. Quando un Paese non cresce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha: mentre mercato, merito, concorrenza—i fattori la cui assenza è all’origine della mancata crescita—spaventano. I cittadini preoccupati chiedono protezione, qualcuno la promette e il Paese si avvita. (Il paragone, lo so, indispettisce, ma la storia del declino dell’Argentina —un Paese che ai primi del ’900 era ricco quanto la Francia—inizia, con Peron, proprio così). Il tentativo di convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloccare l’Italia—devo ammetterlo — è fallito. Con Prodi la sinistra ha perso un’occasione storica: anziché sbloccare la società ha essa pure offerto protezione. Ma chi ha protetto? Non chi temeva la globalizzazione — che infatti si è fatto proteggere dalla Lega—ma il sindacato, anzi i suoi leader. Temo ci vorrà qualche legislatura per riparare questo errore.
I nuovi interlocutori dei «liberisti» (come sostiene da qualche tempo Franco Debenedetti) oggi sono i «protezionisti»: sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpretare meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini. E tuttavia la risposta alla «mobilità planetaria» non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congelata non solo è ingiusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori e deperisce. E’ un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l’Italia sarebbe un suicidio.
30 aprile 2008
La sinistra succube della destra
(FABRIZIO RONDOLINO - LA STAMPA)
C’è la sinistra in Italia? Dal punto di vista lessicale, per la prima volta dal 1946 non è presente in Parlamento. Non soltanto non ci sono più i comunisti e i socialisti: non c’è più neppure la parola «sinistra», che i Ds ancora portavano sulle loro insegne. I risultati delle ultime elezioni non sono meno drastici: grosso modo, il Pd è fatto per un terzo di ex Margherita e per due terzi di ex Ds; sommando alla quota diessina i voti raccolti da tutte le sinistre antagoniste (compresi Ferrando e Turigliatto) e dal Ps, si arriva al 27,3% dei voti validi. Tre punti in meno di quanto raccolse il Fronte popolare di Nenni e Togliatti nel '48. Sette punti in meno della «gioiosa macchina da guerra» assemblata da Occhetto nel ‘94. Più di cinque punti in meno rispetto ad appena due anni fa.
Si è più volte polemizzato, in campagna elettorale, sulle somiglianze fra i programmi del Pd e del Pdl, con reciproche accuse di «aver copiato» e con l’inevitabile evocazione del nuovo mostro, il «Veltrusconi». In realtà, che i programmi dei due partiti che competono per il governo di un qualsiasi Paese occidentale siano relativamente simili è un’assoluta ovvietà. Non è infatti sui programmi che si decide il successo di una forza politica, ma sulla sua identità. In generale, l’idea che far politica e vincere le elezioni significhi presentare una lista della spesa più o meno credibile, più o meno compatibile, e più o meno gradita agli esperti del Sole 24Ore, è un'idea risibile. Sebbene la parola sia carica di equivoci, la politica è fatta di valori, non di programmi. Ciò naturalmente non significa che le «cose», cioè i programmi elettorali e le leggi che (a volte) ne conseguono, non abbiano un peso e un significato: ma quel significato è inscritto e dipende da un sistema di valori che lo precede e lo contestualizza.
L’esempio più clamoroso è lo scontro sulla sicurezza. È evidente a tutti che chi commette un reato va punito, e che i crimini vanno prevenuti: non è dunque di questo che si sta discutendo. Negli ultimi sette anni, Berlusconi ha governato per cinque, e se c’è oggi un’emergenza, una qualche responsabilità deve avercela anche il centrodestra: ma all’elettore di Berlusconi quest’ipotesi non viene neppure in mente. Viceversa, né i provvedimenti già presi dal centrosinistra (la criminalità nelle aree metropolitane è oggettivamente diminuita), né quelli annunciati in campagna elettorale, riescono a soddisfare un’opinione pubblica che, si legge sui giornali, «non ne può più». La ragione è semplice. Nell’identità valoriale della destra c’è un’idea di ordine sociale tendenzialmente esclusivo anziché inclusivo, c’è il valore della comunità e della nazione, c’è l'idea un poco paternalistica per cui uno scappellotto ogni tanto fa bene, e così via. I fallimenti pratici dei governi di centrodestra sono oscurati dalla saldezza dell’orizzonte simbolico di riferimento.
Per la sinistra, accade esattamente il contrario. I valori storici della sinistra hanno a che fare con la solidarietà e con la difesa dei più deboli. Una politica di sinistra moderna dovrebbe chiedersi come declinare questi valori nel mondo d’oggi; se però, come accade regolarmente, finge che siano andati fuori corso e suggerisce l’impressione di scimmiottare la destra, il risultato è un cortocircuito vistoso che lascia perplessi i simpatizzanti e certo non convince gli incerti.
In altre parole, la sinistra su molte questioni suona inautentica a chi non è di sinistra, e ambigua o irriconoscibile a chi lo è, perché nel dibattito pubblico insegue sempre più spesso (magari per moderarne la portata) le proposte della destra, cioè quelle proposte, giuste o sbagliate, che sorgono e fruttificano all’interno di un universo valoriale tradizionalmente di destra. In questo modo la sinistra subisce la scelta del campo di gioco e accetta di giocare una partita non sua. Oggi è la destra a detenere saldamente l’egemonia culturale del dibattito pubblico, di cui regolarmente scrive l’agenda. Si tratta di una novità che pochi, persino a destra, sanno riconoscere. Ma è questa la novità politica del nuovo secolo, e da qui discende tutto il resto.
Fare politica significa convincere i cittadini delle proprie buone ragioni, per poi agire di conseguenza una volta eletti; non significa rincorrere l’opinione pubblica in cambio di una poltrona. L’idea stessa di «opinione pubblica» è fuorviante, e andrebbe maneggiata con cura. La sinistra invece ne è diventata succuba, e scambia regolarmente il sismografo per il terremoto; come una mosca impazzita, sbatte contro il vetro dell'avversario senza accorgersi che tutt'intorno lo spazio è aperto. Il moderatismo e il radicalismo, le due malattie mortali della sinistra italiana, sono precisamente questo sbattere senza fine della mosca contro il vetro.
Il moderatismo del Pd ha paura di spaventare i «moderati», rincorre la Lega al Nord, nasconde i Radicali e archivia i Dico; il radicalismo dell'Arcobaleno si trincera dietro una serie estenuante di no. Entrambi sono figli del Pci di Berlinguer, che dapprima annacquò il profilo programmatico fino a renderlo indistinguibile da quello di Andreotti, nel tentativo di cancellare l’appartenenza, seppur su posizioni critiche, all’universo sovietico; e che poi, fallita la «solidarietà nazionale», si rifugiò nel fondamentalismo ecopacifista e finì col condividere fin nei dettagli la politica estera di Breznev. Da allora, la sinistra ha sempre oscillato e si è sempre divisa fra il tentativo di cancellare il colore di una pelle di cui si vergogna, e l’esibizione rancorosa della propria impotenza.
Eppure non è così difficile, nel mondo, essere di sinistra, «essere sinistra». Lasciamo da parte Blair, che è stato a lungo indicato come modello e che nel frattempo se ne è andato in pensione senza che una sola delle sue idee trovasse ospitalità nella prassi della sinistra italiana. Guardiamo a Zapatero. Il suo straordinario successo elettorale non si deve a una complessa alchimia di alleanze moderate o a un cambio di nome, ma, più semplicemente, all’aver rifondato una sinistra per la Spagna, e all’aver convinto gli spagnoli che quella sinistra avrebbe governato (cioè interpretato) la contemporaneità meglio della destra.
Il centrosinistra italiano in sette anni di governo non è stato capace di legiferare sulle unioni civili, sulla libertà di ricerca scientifica, sul conflitto d'interessi, sulle droghe leggere, sulla procreazione assistita, sulla liberalizzazione dell'accesso alle professioni… In compenso i conti pubblici sono un po’ meno in disordine, mentre quelli delle famiglie non quadrano più. Nulla di ciò che segna oggi l’idea e il concetto di sinistra è stato fatto dalla «sinistra» italiana. In particolare, il campo cruciale delle libertà individuali e dei diritti civili è stato congelato in nome di un malinteso rapporto con il mondo cattolico, dimenticando che la sinistra ha sfondato al centro, negli Anni Settanta, grazie alle battaglie sul divorzio e sull'aborto.
Se non si comincia da qui, cioè dalla definizione di un un’identità radicata nella tradizione e capace di fruttificare nel presente, la sinistra, nonostante abbia persino smesso di chiamarsi così, continuerà a perdere. Fra l’originale e una confusa contraffazione, non è difficile scegliere l’originale.
Paralizzata fra il rifiuto della modernità e l’esaltazione dei suoi aspetti più stupidi, la sinistra dovrebbe invece fermarsi a riflettere, riordinare un po’ le idee, convincersi che il Pci non c’è più (e neppure la Dc), che il mondo non ha bisogno di essere cambiato ma, finalmente, interpretato, e che soltanto fidandosi di se stessa potrà sperare di convincere gli italiani a fidarsi di lei.
Francamente, non so se Veltroni abbia il tempo, la voglia, la capacità o l’interesse a compiere un’impresa del genere. Ma fra i tanti effetti collaterali della disintegrazione della sinistra in Italia c'è stata anche, com’è noto, la disintegrazione sistematica dei suoi leader. Veltroni è l'ultimo: non ci sono alternative, né ruote di scorta. Dunque tocca a lui, e speriamo che ce la faccia.
postato da pd.montagnola