Circolo della Montagnola





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giovedì 23 ottobre 2008

APPELLI E INIZIATIVE

(aggiornato 27/10/2008)

“NO AL RAZZISMO”
APPELLO PER LA MANIFESTAZIONE NAZIONALE DEL PD DEL 25 OTTOBRE.

(inviato da Marcella Lucidi)

Soffia sull’Italia il vento del razzismo.
Il pregiudizio etnico, il rancore sociale, l’odio per il diverso, si sono lentamente diffusi nel Paese, con intensità allarmante in alcune regioni.
E’ avvenuto per ragioni sociali, demografiche, culturali, di grande complessità, sulle quali è necessario riflettere e -per quanto possibile- intervenire. Ma ci sono anche fattori politici, soprattutto l’irresponsabile scelta di partiti e esponenti istituzionali di investire sulla xenofobia e sulla paura per conquistare più facilmente consensi elettorali.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. E ciò che vediamo non è una casuale combinazione di episodi di intolleranza, come il governo sostiene.
E’, invece, una impressionante e coerente sequenza di atti di violenza, compiuti sulle persone per la diversità della loro pelle, religione, cultura. Sono atti che avvengono in un preciso contesto culturale, linguistico, simbolico, a lungo alimentato da messaggi di ostilità, inimicizia, divisione. Per lacerare il Paese anziché unirlo. Per produrre nuove marginalità, anche tra i giovani e i bambini, fin dai banchi di scuola.
La Repubblica italiana non aveva mai conosciuto il razzismo in queste forme e dimensioni. Il Partito democratico ripudia questa degenerazione della convivenza civile, che offende i principi della dichiarazione universale dei diritti umani e quelli della Costituzione repubblicana. Perciò intende impegnarsi con tutte le sue energie affinché il razzismo venga riconosciuto, combattuto e sconfitto, in linea con le grandi scelte di civiltà che hanno ovunque segnato la storia dei partiti democratici.
Per questo invitiamo i cittadini che vogliano assumere questo impegno come prioritario per riaffermare i fondamenti della democrazia in una società multietnica e multiculturale, a partecipare alla grande manifestazione del 25 ottobre dietro lo striscione che porterà la scritta “NO AL RAZZISMO”. Un grande, sentito “no” che sarà anche un grande, sentito “per”. Per l’eguaglianza, per l’accoglienza, per una sicurezza civile e libera dai veleni dell’odio razziale.

Primi firmatari:
Marcella Lucidi, Nando Dalla Chiesa, Jean Leonard Touadì, Livia Turco, Mario Scialoja, Moni Ovadia, Lidia Ravera, Tobia Zevi, Claudio Cecchini, Paolo Masini, Cristina De Luca, Marguerite Lottin, Andrea Masala, Enrico Petrocelli, Alessia Marra, Francesco Spano, Alberto Martinelli, Giuseppe Ferrara, Daniele Cini, Nello Correale, Claudio Camarca, Liliana Ginanneschi, Associazione culturale “Rinascimento”, Darif Aziz, Emiliano Boschetto, Antonella Bucci, Khalid Chaouki, Victoria Chioma Ezenoko, Leonardo Dini, Emanuela Droghei, Abdelali El Asri, Innocent Eke, Federica Gaspari, Massimo Ghirelli, Madison Godoy, Luz Maria Gutierrez Escolastico, Sibi Mani Kumaramangalam, Tetyana Kuzyk, Giovanni La Manna, Stefano Mastrantonio, Ndjok Ngana, Christian Okpara, Carla Ortelli, Alberto Restovin, Gabriel Rusu, Romulo Salvador, Gabriella Taricone, Laura Terzani, Anna Maria Volpe Frignano, Zituni Zuani

Per aderire all’appello, scrivi a: ugliaglianze@partitodemocratico.it

Iniziative Municipio XI

Per opportuna conoscenza vi invio comunicato stampa.

Edoardo Del Vecchio

(OMNIROMA) Roma, 27 ott - Si rinnova il processo di consultazione dei cittadini messo in piedi dal Municipio XI diRoma. L'occasione questa volta è data dalla partecipazione a unbando della Regione Lazio, che prevede lo stanziamento di uncontributo di 300 mila euro da utilizzare per la realizzazionedi un'opera pubblica derivata da processi di partecipazione. Lecittadine e i cittadini di età superiore ai 16 anni residentinel comune, e le persone giuridiche aventi sede legale odoperativa nel comune stesso, possono esprimere la loropreferenza attraverso la compilazione di un modulo in cuifornire concrete indicazioni per l'individuazione del progettoda presentare."La pratica della partecipazione dei cittadini alle decisionidel Municipio XI contraddistingue in maniera consolidata oramaida anni il governo di questo territorio. L'esperienza delBilancio Partecipativo si definisce come strumento di democraziaper ridare voce e potere decisionale ai cittadini - hadichiarato il Presidente del Municipio XI Andrea Catarci - Perquesto abbiamo organizzato una serie di incontri e assemblee,coordinate dall'assessore ai lavori pubblici Alberto Attanasio,e dal consigliere Delegato alla Partecipazione Donato Mattei,che servano per il coinvolgimento del maggior numero possibiledi cittadini al processo e che siano al contempo utile momentodi condivisione tra i differenti quartieri del Municipio XI".Per ogni ulteriore informazioni è possibile consultare il sitowww.comune.roma.it/municipio/11

postato da pd.montagnola

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mercoledì 1 ottobre 2008

LA DEMOCRAZIA E' UN FORMAT ?

(aggiornato 23/10/2008)

SCUOLA: UFF.STAMPA PD, PER FARE PREMIER SERVE SENSO STATO

"Berlusconi smentisce oggi parole pronunciate ieri davanti a decine di telecamere e ascoltate da tutti gli italiani. Si cita testualmente il lancio Ansa delle ore 12.38 in cui, dopo aver definito una 'violenza' le proteste, il Presidente del Consiglio ha detto: 'Convochero' il ministro Maroni per dargli indicazioni su come devono intervenire le forze dell'ordine'". E' quanto precisa, in una nota, l'ufficio stampa del Pd, replicando al premier che, da Pechino, ha smentito di aver mai detto di far ricorso alle forze dell'ordine per impedire le occupazioni di scuole e universita'. "Dopo aver annunciato la chiusura dei mercati a causa della grave crisi finanziaria, smentito poi addirittura dalla Casa Bianca, dopo aver invitato ad acquistare azioni di specifiche societa' quotate, dopo aver detto che la crisi finanziaria non avrebbe avuto effetti sull'economia reale, smentendosi il giorno dopo, il Presidente del Consiglio - prosegue la nota dell'ufficio stampa del Pd - su un argomento cosi' delicato si comporta in maniera intollerabile per chi ha simili responsabilita' evidentemente per lui sproporzionate. Per fare il Presidente del Consiglio di un grande Paese come l'Italia c'e' bisogno di senso dello Stato, di rispetto del dissenso e di controllo della parola e di se' stessi".


Inserito nella pagina dei NOSTRI LINK:
http://beta.youdem.tv/
la Tv del PD.

Il Consiglio del Municipio Roma XI ha presentato la seguente:

MOZIONE
Presentata dal Partito Democratico
Oggetto: Solidarietà a Roberto Saviano
Premesso che:
• in seguito alla pubblicazione del suo libro "Gomorra" con cui muove una denuncia ben documentata e circostanziata all'intero sistema di traffici illeciti e di controllo del territorio esercitato dal clan camorristico di Casal dei Principe, lo scrittore Roberto Saviano è costretto a vivere da due anni sotto scorta per le minacce ricevute da esponenti di tale clan criminale;
• nei giorni scorsi uno dei collaboratori di giustizia, che apparteneva al clan dei Casalesi, ha dichiarato che contro Saviano e gli uomini della sua scorta è stata emessa una sentenza di morte che, secondo quanto dichiarato, verrà eseguita entro dicembre;
• dopo aver vissuto anni di completa solitudine, blindati, lo scrittore ha dichiarato che per tornare a riavere una vita normale e per potersi dedicare nuovamente al suo lavoro è costretto, date le circostanze, a lasciare l'Italia.
Considerato che:
• secondo quanto affermato dal Presidente della Repubblica Napolitano, lo Stato deve essere sempre e comunque garante della sicurezza e dell'integrità di ogni individuo;
• le minacce espresse da esponenti della criminalità organizzata contro liberi cittadini costituiscono un attacco alla civiltà, alla libertà e alla democrazia del nostro Paese;
• il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, tutte le più alte cariche dello Stato e tutte le forze politiche tutte le forze politiche hanno espresso piena solidarietà allo scrittore sostenendo che lo Sato lo difenderà;
• il Sindaco di Roma e alcune forze politiche di opposizione del Comune, si sono impegnati a conferire la cittadinanza onoraria della città di Roma allo scrittore.
Il Consiglio del Municipio Roma XI
Esprime
la sua più totale solidarietà a Roberto Saviano, perché con il suo impegno e il suo lavoro rende un alto servizio all'intero Paese.
Sostiene
pienamente l'iniziativa di predisporre tutti gli atti necessari affinché venga conferita a Saviano la cittadinanza onoraria di Roma.

Impegna

tutto il Consiglio a promuovere iniziative e campagne di sensibilizzazione volte a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata nel nostro territorio.


La nuova lingua del potere
(GIUSEPPE D'AVANZO - La Repubblica)


LA DISTRUZIONE del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione. Se si ricorda il presagio di Karl Kraus, è indispensabile esaminare nei suoi esiti più radicali la semplificazione del discorso pubblico del governo che appare così vincente e convincente da far sostenere a Edmondo Berselli che "la democrazia contemporanea è più vicina a un format che a un complesso strutturato di regole"; a Michele Serra che "la sinistra" deve darsi da fare, lungo questa strada semplificatoria, per sopravvivere nell'èra del "pensiero sbrigativo"; a Marino Niola che "ridotta a format, l'offerta politica contemporanea fa riaffiorare mitologie che appartengono agli strati più remoti della rappresentazione del potere".

Sono riflessioni che hanno il merito di scomporre il paradigma berlusconiano, i suoi gesti, comportamenti e modalità (cinque in condotta in luogo della riforma della scuola e della didattica; fannulloni in luogo di un più moderno disegno di pubblica amministrazione).

Credo tuttavia che il ragionamento sarebbe monco se non ci chiedessimo anche che cosa cova quella diluizione superficiale del linguaggio. A mio avviso, questo può, deve essere l'altro focus della discussione: quale pensiero, potere e democrazia annuncia quell'alienazione della parola che, colonizzati dalla cultura televisiva, diciamo format? Quella lingua, che non riconosce alcuno statuto alla realtà, che riduce drasticamente ogni complessità (anche lessicale), è soltanto una mera tecnica di consenso o custodisce di più: una strategia e addirittura un destino politico?

Temo che l'entusiasmo per le magie del marketing politico trascuri pericolosamente l'"Ospite Indesiderato" che, nascosto nel format, bussa alla porta della nostra democrazia. Desiderosi di consigliare a un'opposizione impotente e muta i modi di una "narrazione" efficace e spendibile al Mercato della Politica diventata Spettacolo e nuovo Leviatano non scorgiamo - quanto non ne ignoriamo - le implicazioni. Omettiamo l'essenziale. Non avvertiamo che la semplificazione brutale del linguaggio della politica cancella ogni spazio politico.

Qui si potrebbe farla lunga. Citare Aristotele. Ricordare che l'uomo è animale politico perché parla. "L'uomo è zoon politikon, ma è tale perché echon logon. E' animale politico perché linguistico: è la comunicazione a gettarlo nella Polis. Imparare a parlare significa cominciare a obbedire alle leggi non scritte della Città. Più precisamente, significa cominciare a prendere partito, ad appartenere e a escludere, a tracciare dei confini" (Rocco Ronchi, "Parlare in neolingua" nel prezioso Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, utilissimo con i suoi 16 saggi, curati da Massimo Recalcati, per affrontare i temi in discussione).

E' il parlare dunque, è il linguaggio che ci consente di abitare nel "regno del politico". A quest'abitare, se libero, deve essere concesso di esitare. L'esitazione della risposta è la consapevolezza di chi parla della "posta in gioco". Implica una decisione. Dispone chi parla in uno spazio preciso del luogo comune. Risolve una relazione con gli altri che lo ascoltano. In questo senso, il linguaggio è un dono (munus) ma anche legame e obbligo perché come il dono, come il dovere, il linguaggio fonda la communitas. Quando la consapevolezza di chi parla, la sua libertà (svelata dall'esitazione) è eliminata a vantaggio di un riflesso automatico, "alla communitas si sostituisce la caserma, al socius il camerata".

* * *

La semplificazione (il format) allora non è soltanto una "tecnica" che evoca le "buone vecchie cose di un tempo" (la maestra, il grembiule di scuola fresco di bucato, l'impiegato operoso), è un modulo assertivo, mai dialogico che dispiega una forza ingiuntiva, imperativa. E' come un tic automatico. E' un logo. Come ogni logo, attiva una memoria automatica, un riconoscimento senza immagine, un assenso senza riflessione, un consenso senza esitazione. Questa modularizzazione del linguaggio, la sua meccanicità presuppone la conoscenza come una maledizione, il registro del reale come irrilevante, il pensiero come un'infezione. "La profilassi comincia dal vocabolario" che s'impoverisce, rinsecca fino a diventare slogan come nella pubblicità, marchio come nella grafica.

Chiunque di noi può combinare un catalogo dei "moduli" della neolingua del Berlusconi politico. Successo Comunisti Produttività Teorema giudiziario Efficienza Legittimità Decisione Mercato Italianità Sicurezza sono oggi loghi che attivano riflessi robotizzati. Appaiono "oggettivi". La loro necessità e valore è fuori discussione. Costituiscono - si può dire rubando ancora le parole a Ronchi - "le premesse assiomatiche della conversazione pubblica. E come accade ai principi primi di ogni dimostrazione, sono sottratti ab aeterno a ogni razionale discussione".

Sono più o meno degli ordini che escludono ogni libero consenso o lecito dissenso. Eliminano un luogo comune e quindi ogni dubbio, esitazione, libertà cancellando di fatto lo spazio politico. Sono "aut disgiuntivi": o si è dentro o si è fuori; o si è incondizionatamente amico o incondizionatamente nemico: o si è per il bene o per il male. Quando il linguaggio si semplifica fino a ridursi a riflesso che rimuove ogni pensiero pensante, a risposta che anticipa il tempo della riflessione soggettiva (non è diventato "criminale" un sinonimo di "immigrato"?) si finisce per annullare la dicotomia oppositiva assenso/dissenso che definisce i regimi democratici o autoritari.

* * *

Il format, la semplificazione del discorso del governo non è soltanto una tecnica di marketing politico. Ci si può vedere senza sforzo qualcosa di peggio: una tendenza totalitaria. Nella fascinazione che suscita anche in spiriti liberi mi sembra di scorgere un offuscamento che inquieta, come un'oscurantista dipendenza a una deriva immaginaria che lavora a mano libera scenari posticci, che manipola il rapporto tra la realtà e la finzione (già realizzato e controllato dal potere ideologico e spettacolare della propaganda totalitaria del Novecento).

Come spiegare in altro modo la rappresentazione - non contestata da alcuno, se non sbaglio - di un uomo di 72 anni, già fiaccato nelle sue energie vitali da un cancro alla prostata e da un intervento chirurgico assai invasivo, come un immortale "padre totemico" che riposa tre ore a notte e fa l'amore per altre tre, prima di rimettersi al lavoro nelle altre diciotto per risolvere i problemi dell'Italia, le difficoltà dell'Occidente, la crisi del Milan?

Come definire questo stato ipnotico che ci impedisce di scorgere il grottesco di questa scena? Il format che ci vieta di riderne pubblicamente non è "un'invenzione culturale", è un esercizio di potere che svela una vocazione totalitaria. E' un dispositivo politico capace di rimuovere ciò che vediamo, sappiamo, conosciamo, tocchiamo.

E' la manifestazione di un potere che riscrive sotto i nostri occhi la realtà ("il reale esiste"); distrugge il linguaggio riducendolo ad automaton incondizionato; ci sottrae l'esperienza e la capacità di prendere posizione. Non dovrebbe essere una sorpresa il consenso anche vasto, anche "imbarazzante" che raccoglie. Sempre "il legame totalitario è la risposta paradossale ad alcuni bisogni, spesso indotti". Non c'è sempre bisogno di polizia e terrore, di violenza assoluta. Il lavoro sulla psiche è più efficace. E' proprio di quel dispositivo creare il mondo e proporsi come il garante della sicurezza e della prosperità del popolo. Il processo di dipendenza tra psiche e politica è assicurato se si inventa una condizione perenne di insicurezza, uno stato permanente di emergenza (l'immigrazione, la giustizia, l'italianità minacciata, la scuola) per offrire una protezione totalizzante.

Come accettiamo l'indistruttibile vitalità del "padre totemico", come accogliamo un grembiule come se risolvesse i problemi dell'educazione, acconsentiamo a quello scenario di finzione e alla moltiplicazione delle strategie di controllo e di prevenzione che seguono. Prigionieri di un vocabolario impoverito - per profilassi - delle cose e del pensiero "infetto", finiamo per considerare il corpo sociale come un corpo malato e le decisioni del governo come una terapia finalizzata a restituirne la salute aggredita da una tossicità interna (l'opposizione, gli stranieri scuri di pelle, i magistrati, i fannulloni, il sindacato, l'informazione).

Il linguaggio diventato logo e riflesso impedisce di vedere come quei "marchi" giustifichino sempre di più pratiche di controllo minuziose (i militari nel centro della città, i vigili urbani in armi); un esercizio del potere illimitato privo di trasparenza e contrappesi (decreti con forza di legge, immunità per chi governa, parlamento servile, autorità indipendenti sospese nelle funzioni); un'invasività nel privato dell'azione disciplinare del potere (intercettazioni preventive, divieto di sesso a pagamento, divieto di trasportare mercanzia con sacchi di plastica, divieto di stendersi sull'erba di un prato in un parco).

* * *

La semplificazione del linguaggio (il format) non è la chiave di un successo politico, magari da imitare come copione da recitare se la sinistra vuole chiudere con le sconfitte: è il presupposto che ridisegna il rapporto tra libertà e politica. Proprio perché la distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione, mi chiederei allora che cosa sarà distrutto domani, dove la tentazione totalitaria ha cominciato a lavorare oggi.

"Totalitarismo", lo so, è una di quelle parole espulse con disprezzo dal discorso pubblico e tuttavia se si guarda al dibattito filosofico e politico - discussione che si svolge a luci spente, lontano dal rumore dei media - interrogare le forme contemporanee dei totalitarismi post-ideologici nelle società a capitalismo avanzato non è per nulla indecente o fesso o volgare. Al contrario, è opportuno. E' onesto. E' urgente. E' legittimo.

Non si tratta naturalmente, come osserva Simona Forti ("Il Grande Corpo della totalità" ancora in Forme), di "opporre - a una democrazia - un regime politico" o di considerare il totalitarismo "come mostro politico" perché "non esiste nessuna muraglia né giuridica né istituzionale, né tanto meno filosofico-culturale, che separa la democrazia dal regime totalitario".

Il totalitarismo non minaccia dall'esterno la democrazia. E', scrive Forti, "l'indesiderato ospite che bussa di continuo alla sua porta", "è una risposta estrema alle questioni che la modernità politica pone e non può risolvere. Non solo allora il totalitarismo è un'esperienza moderna, ma è un possibile sbocco della democrazia. Una forma di società che reagisce alla debolezza costitutiva dell'invenzione democratica, alla sua indeterminatezza, alla sua apertura verso il vuoto, in una parola alla libertà".

Per comprendere se l'Ospite Indesiderato abita accanto a noi, dentro di noi, bisogna allora investigare le debolezze della nostra democrazia, le angosce della società italiana, l'insufficienza di equilibri e assetti (esistenziali, istituzionali, politici, culturali). E' nello scarto tra la modernità dei problemi, lo smarrimento sociale che provocano, l'angoscia delle domande e l'inadeguatezza delle risposte collettive e politiche, che si aprono i varchi dove si fa largo e attecchisce una "mentalità totalitaria" e una tecnica di potere che, al contrario del Novecento, non ha più alcun contenuto ideologico.

Una verifica della presenza dell'Ospite nella nostra democrazia deve esplorare la relazione essenziale del totalitarismo con la libertà (e il linguaggio, abbiamo visto, n'è la prima vittima) perché è un totalitarismo che non si costituisce più esplicitamente, visibilmente come violenza e terrore e distruzione dell'Altro, ma più occultamente "lavora" (ancora Forti) nel nesso tra vita umana e potere politico; nelle modalità del rapporto tra realtà e finzione; nell'assenza di strumenti idonei per orientarci tra il bene e il male, di definizioni, orientamenti, consapevolezze che oggi ci impediscono anche di riconoscerlo il male, di averne un'idea, un pensiero. Ora sono queste le dannate sfide che attendono la sinistra, non lo scimmiottamento del "padre totemico", della sua neolingua totalitaria.

(11 ottobre 2008)


Il mondo facile della politica format
(MICHELE SERRA - La Repubblica)

La campagna per il ritorno alla maestra unica, al di là dei propositi contingenti di "risparmio", aiuta a riflettere in maniera esemplare sulle ragioni profonde delle fortune politiche della destra di governo, e sulle sue altrettanto profonde intenzioni strategiche. Sono intenzioni di semplificazione. Se la parola-totem della sinistra, da molti anni a questa parte, è "complessità", a costo di far discendere da complesse analisi e complessi ragionamenti sbocchi politici oscuri e paralizzanti, comunque poco intelligibili dall'uomo della strada, quella della destra (vincente) è semplicità.

La pedagogia e la didattica, così come sono andate evolvendosi nell'ultimo mezzo secolo, sono avvertite come discipline "di sinistra" non tanto e non solo per il tentativo di sostituire alla semplificazione autoritaria orientamenti più aperti, e a rischio di permissivismo "sessantottesco". Sono considerate di sinistra perché complicano l'atteggiamento educativo, aggiungono scrupoli culturali ed esitazioni psicologiche, si avvitano attorno alla collosa (e odiatissima) materia della correttezza politica, esprimono un'idea di società iper-garantita e per ciò stesso di ardua gestione, e in buona sostanza attentano al desiderio di tranquillità e di certezze di un corpo sociale disorientato e ansioso, pronto ad applaudire con convinzione qualunque demiurgo, anche settoriale, armato di scure.

In questo senso la proposta Gelmini è quasi geniale. L'idea-forza, quella che arriva a una pubblica opinione sempre più tentata da modi bruschi, però semplificatori, è che gli arzigogoli "pedagogici", per giunta zavorrati da pretese sindacali, siano un lusso che la società non può più permettersi. Il vero "taglio", a ben vedere, non è quello di un personale docente comunque candidato - una volta liquidati i piloti, o i fannulloni, i sindacalisti o altri - al ruolo di ennesimo capro espiatorio. Il vero taglio è quello, gordiano, del nodo culturale. La nostalgia (molto diffusa) della maestra unica è la nostalgia di un'età dell'oro (irreale, ma seducente) nella quale la nefasta "complessità" non era ancora stata sdoganata da intellettuali, pedagogisti, psicologi, preti inquieti, agitatori politici e cercatori a vario titolo del pelo nell'uovo. Una società nella quale il principio autoritario era molto aiutato da una percezione dell'ordine di facile applicazione, nella quale il somaro era il somaro, l'operaio l'operaio e il dottore dottore. Una società che non prevedeva don Milani, non Mario Lodi, non Basaglia, ovviamente non il Sessantotto, e dunque, nella ricostruzione molto ideologica che se ne fa oggi a destra, è semplicemente caduta vittima di un agguato "comunista".

In questo schemino, semplice ed efficace, la cultura e la politica, a qualunque titolo, non sono visti come interpreti dei conflitti, ma come provocatori degli stessi. Se la pedagogia "permissiva" esiste, non è perché il disagio di parecchi bambini o la legnosità e l'inadeguatezza delle vecchia didattica richiedevano (già quarant'anni fa) di essere individuati e affrontati, ma perché quello stesso problema è stato "creato" da un ceto intellettuale e politico malevolmente orientato alla distruzione della buona vecchia scuola di una volta. Insomma, se la politica è diventata un format, come ha scritto Edmondo Berselli, la sua parola d'ordine è semplificazione.

Per questa destra popolare, e per il vasto e agguerrito blocco sociale che esprime, la complicazione è un vizio "borghese" (da professori, da intellettualoidi, beninteso da radical-chic, e poco conta che il personale scolastico sia tra i più proletarizzati d'Italia) che non possiamo più permetterci, e al quale abbiamo fatto malissimo a cedere. Non solo la pedagogia, anche la psicologia, la sociologia, la psichiatria, nella vulgata oggi egemone, non rappresentano più uno strumento di analisi della realtà, quanto la volontà di disturbo di manipolatori, di rematori contro, di attizzatori di fuochi sociali che una bella secchiata d'acqua, come quella della maestra unica, può finalmente spegnere. La lettura quotidiana della stampa di destra - specialmente Libero, da questo punto di vista paradigma assoluto dell'opinione pubblica filo-governativa - dimostra che il trionfo del pensiero sbrigativo, per meglio affermarsi, necessita di un disprezzo uguale e contrario per il pensiero complicato, per la massa indistinta di filosofemi e sociologismi dei quali i nuovi italiani "liberi" si considerano vittime non più disponibili, per il latinorum castale di politici e intellettuali libreschi, barbogi, causidici, che usano la cultura (e il ricatto della complessità) come un sonnifero per tenere a freno le fresche energie "popolari" di chi ne ha le scatole piene dei dubbi, delle esitazioni, della lagna sociale sugli immigrati e gli zingari, sui bambini in difficoltà, su chiunque attardi e appesantisca il quotidiano disbrigo delle dure faccende quotidiane. Già troppo dure, in sé, per potersi permettere le "menate" della sinistra sull'accoglienza o il tempo pieno o i diritti dei gay o altre fesserie.

La sinistra ha molto di che riflettere: la formazione culturale e perfino esistenziale del suo personale umano (elettorato compreso) è avvenuta nel culto quasi sacrale della complessità del mondo e della società, con la cultura eletta a strumento insostituibile di comprensione anche a rischio di complicare la complicazione... Ma non c'è dubbio che tra il rispetto della complessità e il narcisismo dello smarrimento, il passo è così breve che è stato ampiamente fatto: nessuna legge obbliga un intellettuale o un politico a innamorarsi dell'analisi al punto di non rischiare mai una sintesi, né la semplificazione - in sé - è una bestemmia (al contrario: proprio da chi ha molto studiato e molto riflettuto, ci si aspetterebbe a volte una conclusione che sia "facile" non perché rozza o superficiale, ma perché intelligente e comprensibile). Ma la posta in gioco è molto più importante del solo destino della sinistra. La posta in gioco - semplificando, appunto - è il destino della cultura, degli strumenti critici che rischiano di diventare insopportabili impicci. Se questa destra continuerà a vincere, a parte il marketing non si vede quale delle discipline sociali possa sperare di riacquistare prestigio, e una diffusione non solo castale o accademica. Perché è molto, molto più facile pensare che l'umanità e la Terra siano stati creati da Dio settemila anni fa (cosa della quale è convinta ad esempio la popolarissima Sarah Palin) piuttosto che perdere tempo e quattrini studiando i fossili e l'evoluzione. È molto più rassicurante, convincente, consolante pensare che le buone maestre di una volta, con l'ausilio del cinque in condotta e di una mitraglia di bocciature, possano mantenere l'ordine e "educare" meglio i bambini ipercinetici, e consumatori bulimici, che la televisione crea e che la propaganda di destra ora lascia intendere di poter distruggere, perché è meglio avere consumatori docili (clienti, come dice Pennac) piuttosto che cittadini irrequieti. È meglio avere certezze che problemi.

È molto più semplice pensare che il mondo sia semplice, non fosse che per una circostanza incresciosa per tutti: che non lo è. Il mondo è complicato, l'umanità pure, i bambini non parliamone neanche. Se le persone convinte di questo obbligatorio, salutare riconoscimento della complicazione non trovano la maniera di renderla "popolare", di spiegarla meglio, di proporne una credibile possibilità di governo, di discernimento dei principi, dei diritti, dei bisogni fondamentali, diciamo pure della democrazia, vedremo nei prossimi decenni il progressivo trionfo dei semplificatori insofferenti, dei Brunetta, delle Gelmini, delle Palin. Poi la realtà, come è ovvio, presenterà i suoi conti, sprofondando i semplificatori nella stessa melma in cui oggi si dibattono i poveri complicatori di minoranza. Nel frattempo, però, bisognerebbe darsi da fare, per sopravvivere con qualche dignità nell'Era della Semplificazione, limitandone il più possibile i danni, se non per noi per i nostri figli che rischiano di credere davvero, alla lunga, al mito reazionario dei bei tempi andati, quando la scuola sfornava Bravi Italiani, gli aerei volavano senza patemi, gli intellettuali non rompevano troppo le scatole e la cultura partiva dalla bella calligrafia e arrivava (in perfetto orario) alla più disciplinata delle rassegnazioni. Cioè al suo esatto contrario.

(24 settembre 2008)




Perché ho timori per la democrazia
(Lettera al Corriere della Sera)

Caro direttore,
nel suo editoriale di ieri Pierluigi Battista descrive la preoccupazione e l'allarme che avevo manifestato nell'intervista al Corriere della Sera di domenica come una «vecchia narrazione», come la ripresa di uno scontro muro contro muro in cui viene messa in forse la legittimità democratica dell'avversario. Credo che questa analisi non sia corretta, per due motivi che proverò a spiegare.

Il primo riguarda il rapporto impostato dalla maggioranza e da Berlusconi per primo con l'opposizione, il secondo la natura e la portata del ragionamento sui rischi di un impoverimento della democrazia che ho avviato ormai da tempo, che era al centro del mio discorso al Lingotto e poi a Sinalunga e dell'intervista al suo giornale.
Ha certamente ragione Battista a dire che attorno al tema del rapporto maggioranza- opposizione c'è stato un «gigantesco equivoco»: quello che i giornali hanno stucchevolmente chiamato dialogo, ovvero il confronto con il governo sulle riforme istituzionali necessarie al Paese, è diventato una «autocensura moderata dell'opposizione, la sordina sulle critiche anche veementi all'azione di governo ». Uno schema impossibile e irrealistico, prima di tutto per la vita stessa della democrazia, che però è stato adottato per primo proprio da Berlusconi, che è sembrato aspettarsi una opposizione non dialogante ma inesistente. In cinque mesi di vita il Parlamento è stato chiamato a ratificare una lunga serie di provvedimenti, tutti o quasi decreti legge, tutti o quasi votati sull'onda della fiducia. Male sui contenuti (che si tratti di scuola o di sicurezza, di giustizia o di conti pubblici), male nel metodo che è poi sostanza democratica. Su questo insieme a Casini ho inviato una lettera al presidente della Camera per sottolineare come il Parlamento fosse messo nella condizione di non discutere nulla e sostanzialmente espropriato.
Su tutto questo, sui concreti contenuti dei provvedimenti del governo Berlusconi e sui rischi di una vera decadenza della democrazia, il Pd ha promosso la sua manifestazione del 25 ottobre a Roma. È, questa, una delegittimazione dell' avversario? Potrei ribattere ricordando come il 2 dicembre del 2006, parlando su un palco in cui campeggiava la scritta «Contro il regime, per la libertà», Silvio Berlusconi affermava di rappresentare la maggioranza dell'Italia in lotta contro l'oppressione «imposta da un governo di minoranza».


Ma non voglio andare così indietro per comprendere chi davvero è abituato a mettere in discussione la legittimità democratica dell'avversario. Mi limito a partire dallo scorso giugno: mentre alle Camere arrivava la norma blocca-processi i magistrati erano definiti metastasi della democrazia e il leader dell'opposizione diventava un «fallito» che dovrebbe «ritirarsi dalla politica». Ed è di qualche giorno fa, nel pieno della trattativa Alitalia, la battuta insultante di un «Veltroni inesistente », spesa per conquistare titoloni sui giornali e smentita solo giorni più tardi. In mezzo, un mare di insulti di tutti gli uomini del Pdl. Chi, se non Berlusconi, ha definito la giudice Gandus suo «nemico politico»? Chi minaccia la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul lodo Alfano? Chi parla del governo come di un «consiglio d'amministrazione »? Chi durante una trattativa offende il sindacato con i suoi prendere o lasciare e si esprime nei confronti di una forza dell'opposizione come l'Idv definendola nemica della democrazia e della libertà? Una litania, questa sì, delegittimante per l'opposizione e per le istituzioni.


È per tutto questo che ho sottolineato quanto sia grande la differenza tra governare
pro tempore, come avviene in democrazia, e invece sentirsi «al potere». E a proposito di narrazione, quando Berlusconi dopo essersi dichiarato disposto al confronto sulle riforme strappa la tela di ogni possibile convergenza e riprende come sempre ad aggredire ed insultare i suoi avversari non ripropone, questa sì, la narrazione antica di cui gli italiani si sono stancati?
Peraltro le mie riflessioni di domenica, sulle quali più del 70% dei lettori del Corriere.it si è dichiarato d'accordo, erano un tentativo di portare lo sguardo un po' più in là rispetto a quanto sta avvenendo nel nostro Paese e alle polemiche contingenti. Non ho interesse, e non ne ho nemmeno la presunzione, ad ascrivere nessuno nella categoria dei «nemici ontologici» della democrazia. A preoccuparmi sono quegli stessi fenomeni di fondo che attraversano le società occidentali e che ovunque richiamano l'attenzione di tanti commentatori e uomini politici. Basti pensare a come in Francia una rivista cattolica del prestigio di Esprit abbia dedicato un intero numero agli attuali rischi di «regressione democratica », alla possibile fine della democrazia come la conosciamo in Occidente.

A preoccuparmi è questo, è una realtà che si sta incaricandodi dimostrare che nel mondo il mercato può esistere anche senza democrazia o in presenza di democrazie deboli. È la realtà di una diffusa crisi democratica, di pericolose pulsioni xenofobe e razziste che ormai trovano aperta espressione e rappresentanza politica, come il voto austriaco ha appena dimostrato. È la realtà di un generalizzato bisogno di decisione che si manifesta con un insieme di semplificazione mediatica dei problemi, di fastidio per ogni complessità, di richiamo alle paure più profonde delle persone, di tendenze all'investitura plebiscitaria della leadership, di scavalcamento o marginalizzazione delle istituzioni, di noncuranza per la patologica concentrazione del potere, di irrisoria facilità nell'oscillare tra il ruolo di profeti della deregulation e quello di paladini dell'intervento dello Stato. Di tutti questi fenomeni il nostro Paese, anche per l'evidente propensione del Presidente del Consiglio ad esserne l'incarnazione, è purtroppo un evidente esempio.


Non vecchie narrazioni e residui del passato, insomma. Noi siamo l'opposizione dell'innovazione e della democrazia che decide. Abbiamo la preoccupazione per la complessità dei problemi presenti e sentiamo la responsabilità di cercare risposte nuove per difendere e rafforzare la nostra democrazia, per rendere il nostro Paese più moderno.


Walter Veltroni
01 ottobre 2008


Il potere oltre le regole
(MASSIMO GIANNINI - LA Repubblica)


NEGLI STATI UNITI, alla vigilia del voto del Congresso americano sul maxi-piano di salvataggio bancario più imponente della storia, il segretario al Tesoro Henry Paulson ha compiuto un atto simbolico carico di significati: si è inginocchiato di fronte al presidente Nancy Pelosi, per invocare al Parlamento un'approvazione rapida di quel pacchetto di norme.

Il potere esecutivo, sia pure in una condizione di assoluta emergenza nazionale, si rimette al giudizio solenne del potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante il caos finanziario che non ha saputo scongiurare e che ora fatica a gestire, la democrazia americana sa riconoscere i suoi valori, le sue regole, le sue istituzioni.

In Italia, alla vigilia del varo imminente dell'ennesimo decreto legge, stavolta sulla prostituzione, il presidente del Consiglio lancia un attacco ideologico contro il Parlamento, colpevole di intralciare l'azione del governo. "Imporrò alle Camere l'approvazione entro due mesi di tutti i decreti legge che riterrò necessari per governare il Paese - annuncia Berlusconi - e non esiterò a porre la fiducia ogni volta che servirà, poiché la fiducia è questione di coraggio e di responsabilità".

Il potere esecutivo, sia pure dotato di una maggioranza senza precedenti, sottomette il potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante l'esistenza formale dei suoi precetti e la resistenza sostanziale dei suoi organi di garanzia, la democrazia italiana rischia di svilire i suoi principi, i suoi precetti, la sua qualità.

L'offensiva del premier tocca un nervo scoperto per il ceto politico, e un punto sensibile per l'opinione pubblica. In questi anni l'odiata Casta che abita le aule parlamentari, tra privilegi e inefficienze, non ha fatto nulla per meritare la fiducia del popolo sovrano. Berlusconi, ancora una volta, cavalca l'onda dell'antipolitica.

E da "uomo del fare" che combatte i "parrucconi", ha capito ciò che i governati sfiduciati chiedono ai governanti delegittimati: decidere, o anche solo far finta di aver deciso. È quello che il premier sta facendo, incrociando il senso comune dominante. Sui rifiuti e sull'Alitalia, sui rom e sulla camorra. Non conta ciò che c'è "nel" provvedimento. Conta solo che ci sia "il" provvedimento.

Tutto quello che intralcia o rallenta il processo va rimosso, o quanto meno esecrato. Vale la decisione. Non c'è più spazio per la discussione e, a volte, nemmeno per la ragione. E così, oggi, pur guidando un governo del presidente e comandando una maggioranza di 162 tra deputati e senatori, il Cavaliere si permette il lusso di additare proprio il Parlamento come il luogo della "non decisione".

L'attacco al potere legislativo è una mossa ad effetto, che può far presa nella gente. Ma è una scelta grave. Lo è dal punto di vista politico. Anche il Parlamento, per lo più ridotto a "votificio", necessita di riforme. Ma queste riforme non può imporle a forza il capo dell'esecutivo, a colpi di decreti legge e di fiducia.

La revisione dei regolamenti parlamentari è opportuna, ma è materia da trattare con cautela e rispetto. Non a caso è disciplinata addirittura dalla Costituzione, che attribuisce ai regolamenti la forza di fonti del diritto e all'articolo 64 ne vincola la modifica alla "procedura rinforzata" delle maggioranze assolute.

Ma la scelta di Berlusconi è grave anche e soprattutto dal punto di vista istituzionale. Ha un solo precedente, evidentemente non casuale, nella storia repubblicana. È Bettino Craxi, che al congresso del Psi di Verona, nel 1984, furibondo per la mancata conversione del decreto di San Valentino sulla scala mobile, tuonò contro i parlamentari che si occupavano "solo di conferenze sulle aspirine" e di "norme in materia di pollame, molluschi, prosciutto di San Daniele e scuole di chitarra".

Perché, a distanza di 25 anni, Berlusconi sente oggi il bisogno di replicare, con formule addirittura deteriori, il modello craxiano? Che bisogno ha, proprio ora che tiene il Paese in tasca e domina in splendida solitudine la scena politica, di riaprire un conflitto così aspro e avvelenato con le istituzioni?

C'è una sola risposta con un senso compiuto: è il Quirinale. Il Cavaliere ha fretta di chiudere la Seconda Repubblica e di inaugurare, se serve anche nel fuoco della battaglia, una Terza Repubblica tagliata ancora una volta a misura della sua biografia personale. E colpisce che, di questa trama palese, le anime belle della sedicente "cultura liberale" non vedano i fili.

Se Veltroni, per aver accostato il premier a Putin, è accusato di essere ancora prigioniero della "vecchia narrazione" di un centrosinistra tenuto insieme solo dal cemento dell'anti-berlusconismo, di quale "nuova narrazione" sarebbe invece interprete Berlusconi, che ritorna in guerra contro i suoi soliti fantasmi, umilia il Parlamento, svalorizza il Capo dello Stato, minaccia la Corte costituzionale?

La vera "cifra" del nuovo berlusconismo, micidiale miscela di cesarismo regressivo e di populismo deliberativo, è racchiusa in un mirabile enunciato di Giuliano Ferrara, il suo più brillante esegeta: "La democrazia, alla fine, non è expertise, ma è solo consenso". In questi tempi difficili è una verità agghiacciante. Ma purtroppo è esattamente così che Berlusconi sta riducendo la nostra democrazia.

(3 ottobre 2008)

postato da pd.montagnola

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